Sono arrivata in Italia nel 2001, pochi mesi prima del passaggio all’Euro. La destinazione prescelta fu l’Umbria. Ero convinta che avrei trovato lavoro subito, il mio CV comprendeva una laurea del’98 ed esperienza in PMI e in multinazionali; parlavo l’italiano ed ero già cittadina italiana. Mi feci forza e affrontai con ottimismo la ricerca di […]
Caporalato digitale: il Comune di Bologna non abbassa la guardia
La pandemia ha accelerato la digitalizzazione del lavoro. Quali sono le nuove sfide per ripensarlo ed evitare le nuove forme di sfruttamento?
Per il terzo anno consecutivo la Città di Bologna ha avuto il privilegio di ospitare Nobìlita, il Festival della Cultura del lavoro. Quella di quest’anno è stata forse l’edizione più bella, perché più sfidante, considerando i tempi straordinari che stiamo vivendo. La pandemia è stata, ed è tutt’ora, un grande banco di prova per la tenuta del nostro sistema sanitario, del nostro welfare, del nostro tessuto produttivo e sociale.
Abbiamo (ri)scoperto che tra i settori strategici del nostro Paese ci sono comparti bistrattati come la logistica, la sanità pubblica, la ricerca, la filiera agroalimentare. Abbiamo scoperto che senza le priorità di una politica industriale, le decisioni strategiche sono racchiuse nel sistema napoleonico fatto di DPCM, codici Ateco e autorizzazioni della Prefettura. Abbiamo scoperto, durante la fase più acuta della pandemia, che i rider nell’economia reale sono più necessari degli startupper.
La vulnerabilità del sistema messa a nudo dalla pandemia è una grande occasione di cambiamento e di trasformazione. Come spesso succede nel nostro Paese, abbiamo bisogno di arrivare vicini al baratro per avere un sussulto d’orgoglio. Abbiamo vissuto negli ultimi mesi un’accelerazione del processo di digitalizzazione del nostro sistema pubblico e privato che non avevamo avuto la forza di portare avanti nel corso degli anni. Oltre la dittatura dell’emergenza, bisogna ora trovare il coraggio di operare trasformazioni profonde, a partire dai contesti urbani, se non vogliamo correre il rischio di vivere sospesi sul filo, tra la paura di nuovi lockdown e la volatilità della memoria, rispetto a quanto successo nel lockdown appena trascorso.
Nessuno poteva dire di essere realmente preparato davanti a un evento inedito della storia come una pandemia. Sarebbe tuttavia imperdonabile farsi ritrovare nuovamente impreparati davanti ad una seconda ondata di contagi.
Il nuovo legame tra lavoro e territori
Pensiamo a quanto successo nel mondo del lavoro. Partiamo dal riconoscere che il rapporto di lavoro non è solo un fatto privato. Il lavoro è relazione.
Se il lavoro è relazione tra le persone, l’impresa e il luogo di lavoro, nell’era del COVID-19 per essere attrattivi come città non basta più offrire posti di lavoro. Il lavoro è ovunque. Aver paura del South Working significa aver paura di guardarsi allo specchio e riconoscere le diseguaglianze territoriali generate dalla migrazione interna tra il Nord e il Sud del nostro Paese. Se il lavoro è ovunque, bisogna costruire un senso nuovo di comunità, un nuovo legame tra lavoro e territorio, con un’idea di benessere personale e collettiva.
È attorno all’idea di work-life balance che si costruisce una nuova attrattività di un contesto urbano. Dove un sistema d’istruzione di qualità per i propri figli vale più di un aumento in busta paga. Dove il tempo risparmiato nella mobilità tra casa e luogo di lavoro si può investire nella qualità del proprio tempo libero.
Per difendere la dignità del lavoro bisogna avere il coraggio di dire dei sì e dei no. In politica è sempre facile dire dei sì; molto più difficile avere il coraggio di dire dei no. Eppure, se non si ha la forza di dire no al lavoro irregolare, precario, povero, insicuro, si crea un esercito di lavoratori fragili che abbassa le condizioni di lavoro per tutti. Se non si dice no al massimo ribasso negli appalti, non si può evitare che il costo del lavoro sia la base della competizione.
Questo è dirigismo? Interventismo? Statalismo? Non credo. È l’utilizzo dell’intervento pubblico per colpire i fallimenti del mercato, orientando la produzione verso la filiera del valore e creando un legame tra imprese, lavoro e territorio. È un modo per rispettare le regole della leale concorrenza tra le imprese, promuovendo la competizione fatta sulla qualità dei servizi e dei prodotti, l’innovazione nei processi e nei prodotti.
Onesti, non furbi: la lotta al caporalato digitale
Promuovere la cultura del lavoro digitale è la battaglia strategica del nostro Paese, attorno alla quale occorre stringere un’alleanza tra imprese, lavoratori, giornalisti e istituzioni. In fondo, la Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano (meglio nota come Carta dei rider o Carta di Bologna) firmata nel 2018 aveva questa ambizione.
“La furbizia è la prostituzione dell’intelligenza”. Con queste parole dal palco di Nobìlita ho stigmatizzato la lettera con cui Assodelivery ha salutato il “traguardo storico” del nuovo contratto ad hoc firmato con UGL. Costruire un cartello tra le piattaforme digitali, scegliersi un sindacato di comodo e fare un finto contratto collettivo nazionale: cosa c’è di innovativo in tutto questo? Era una delle pratiche più diffuse del Novecento. Rimane una delle pratiche più abusate per non rispettare le leggi o i contratti collettivi nazionali firmati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Però sarebbe ipocrita prendersela solo con Sarzana & co. Può invece essere l’occasione per aprire una seria riflessione su una certa (sotto)cultura dell’innovazione che rischia di emergere nel nostro Paese. Quella che scambia il lavoro da remoto con il lavoro agile. Quella che scambia l’e-learning con la didattica a distanza. Quella che elogia la (finta) autonomia per coprire la fuga dalla subordinazione, e che nasconde il ritorno al cottimo con il sistema di ranking e gli indici di valutazioni delle performance.
La storia della lotta al caporalato digitale è l’occasione per riflettere sul valore dell’etica nell’economia e nel mondo del lavoro. Non avevamo certo bisogno della conclusione delle indagini della Procura di Milano per riconoscere in alcune fasce di gig worker un “sistema per disperati”, un sottoproletariato digitale dove lavoratori e “collaboratori” vengono pagati 3 euro a consegna, “derubati” delle mance ricevute dai clienti e sottoposti a condizioni di lavoro degradanti, sotto il ricatto di un reddito da lavoro o di un permesso di soggiorno. Costruire argini contro queste derive significa proteggere nei nostri contesti urbani la filiera del valore generata dalle nostre aziende.
Siamo tutti in attesa di trovare un vaccino contro il COVID-19. Ma non dimentichiamoci che la cultura, la conoscenza, il pensiero critico sono il vaccino più potente che abbiamo contro l’arroganza, l’ignoranza e la protervia di una certa retorica sulla (falsa) innovazione. Educhiamo le persone ad essere oneste, non furbe. Questa sì che sarebbe una vera innovazione sociale per il nostro Paese.
È stato un vero privilegio accompagnare gli amici di Nobìlita in questa avventura per raccontare le trasformazioni nel mondo del lavoro. L’auspicio è di ritrovarsi come comunità anche l’anno prossimo. Senza mascherine e senza innovazioni mascherate.
In copertina Marco Lombardo tra i Riders che hanno portato la loro testimonianza sul palco di Nobìlita. A destra Tommaso Falchi, Riders Union Bologna. Foto di Domenico Grossi.
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