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Christian Greco e la nuova Agorà torinese
“L’unico vero grande rischio, per un museo, è quello di essere dimenticato e di non essere sentito come parte del tessuto sociale in cui è inserito”. Contro questo scenario lavora dal 2014 Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, che ha guidato e guida il processo di rinnovamento di una delle istituzioni archeologiche più […]
“L’unico vero grande rischio, per un museo, è quello di essere dimenticato e di non essere sentito come parte del tessuto sociale in cui è inserito”. Contro questo scenario lavora dal 2014 Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, che ha guidato e guida il processo di rinnovamento di una delle istituzioni archeologiche più prestigiose al mondo. Con una visione ben definita: allargare il bacino di utenza, ma senza perdere credibilità scientifica. Anzi: investendo sulla ricerca, sapendo però come comunicarla e farne un valore aggiunto di attrazione. Con l’egittologo originario del Veneto approfondiamo la progettualità di un ente culturale che non vuole essere solo luogo di accrescimento, ma anche centro di incontro e dialogo.
Al di là delle sacrosante politiche di tutela e conservazione, la sua priorità è sempre stata la ricerca. Da qui è partita la valorizzazione del Museo Egizio dopo la riapertura nel 2015?
Nella moderna concezione di museo la ricerca deve avere un ruolo centrale, rifacendosi a un modello tanto antico quanto ancor oggi attuale: quello del Mouseion di Alessandria di Egitto, fondato nel 280 a.C. da Tolomeo Soter. Qui, in connessione alla celebre biblioteca, una comunità di studiosi era dedita alla disamina, all’edizione critica e alla traduzione in greco dei testi conservati. Un luogo di incontro e di insegnamento che ha rappresentato il massimo centro culturale del mondo ellenistico. Un’ispirazione che non esaurisce però la missione a cui un museo è chiamato. Non è sufficiente accogliere gli studiosi. È altrettanto importante che la ricerca sia affiancata da una comunicazione accurata e puntuale, rivolta a tutti, aprendo il museo e il suo patrimonio di conoscenza alla comunità.
Il Museo respinge l’autoreferenzialità tastando il polso dei suoi visitatori, come dimostra anche l’iniziativa “Le passeggiate con il direttore”. Qual è la “domanda” di fruizione culturale che registra, nei torinesi e non solo?
I musei sono visti spesso come luogo di conservazione, ma c’è una spinta sempre maggiore – soprattutto all’estero – a considerarli come luogo di innovazione e sperimentazione sociale: i musei americani, ad esempio, hanno introdotto il concetto di museo “compartecipativo”, e i livelli di visita sono decisamente maggiori rispetto ai nostri. A essere premiata è soprattutto una visione secondo la quale il fruitore non è passivo, ma partecipa alla vita museale. È una tendenza avvertita anche in Italia, e l’iniziativa “Le passeggiate con il direttore” ne è una prova. I numeri più ristretti di questa tipologia di visita consentono, infatti, una fruizione dialogica del tempo museale, che viene usato non solo per ascoltare o leggere quanto è presente nei testi di sala o nelle audioguide, ma come momento per sollevare questioni, dubbi, curiosità. L’elemento umano al centro di un percorso come questo risponde, quindi, all’esigenza di compartecipazione che prima citavo. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello del senso di appartenenza. Un museo come l’Egizio, nato nel 1824, è ormai parte integrante del paesaggio urbano e i torinesi hanno accolto con favore questa proposta anche e soprattutto perché consente loro di scoprire – in un modo inedito – quello che percepiscono come un pezzo della loro storia.
Come si trasmette al visitatore la concezione di un’istituzione culturale viva, in costante evoluzione e capace di inserirsi nel dibattito attuale?
In questo momento storico il Museo Egizio sente la responsabilità di essere vissuto come luogo di incontro, una vera e propria agorà cittadina aperta a tutti. L’accessibilità è in quest’ottica sentita come una priorità: i livelli di accessibilità sono molteplici – economica, culturale, linguistica, fisica – e il Museo Egizio si sta impegnando affinché venga percepito come spazio inclusivo; non mero contenitore di oggetti, ma luogo in cui si raccontano storie al cui centro è l’uomo, non solo del passato ma anche contemporaneo. Un percorso solo agli inizi e ricco di sfide.
L’inclusione, delle periferie innanzitutto, è una componente dell’equazione del sistema culturale di una città multietnica contemporanea, e quindi anche di Torino.
Le politiche inclusive partono da un assunto che potrebbe essere considerato banale, ma che al contrario non andrebbe mai sottovalutato: il museo non ha un solo pubblico ma pubblici, al plurale, estremamente eterogenei. È dunque un dovere di qualsiasi istituzione culturale essere cosciente del contesto in cui è immersa, dei pubblici ai quali rivolge la propria offerta. In una città come Torino è stato per noi naturale prendere atto del mosaico multiculturale cittadino. Ed è per raggiungere le differenti tessere di questo mosaico che, tra le altre iniziative, abbiamo dato vita alla campagna “Fortunato chi parla arabo’, rivolta alla comunità arabofona, con la quale si offrivano due ingressi al prezzo di uno. Abbiamo cercato di allargare la nostra audience.
Un’iniziativa che ha attirato anche le proteste di una parte politica. Ma non è l’unica che il Museo Egizio mette in campo.
Altri progetti mirano all’allargamento dei pubblici con una particolare attenzione verso coloro che sono meno abituati alla frequentazione di un museo. In occasione della “Giornata mondiale del Rifugiato”, organizziamo “Io sono benvenuto” che registra ogni anno centinaia di presenze. Con il progetto “Il Museo fuori dal Museo” portiamo i nostri egittologi in luoghi in cui si trovano persone che non possono raggiungere via Accademia delle Scienze: i detenuti del carcere Lorusso Cutugno, i piccoli pazienti dell’ospedale. Il “Papiro Tour” prevede, invece, una mostra itinerante dedicata ai papiri (in particolare al Libro dei morti), ospitata a turno da dodici biblioteche cittadine, i cui gli utenti – grazie a straordinarie riproduzioni realizzate proprio dai detenuti del carcere – possono entrare in contatto con la civiltà egizia. Si tratta di un’iniziativa che mira anche a creare sinergie tra diverse realtà culturali cittadine.
Si parlava prima di innovazione. Il Museo Egizio si è aggiudicato il Premio Gianluca Spina per l’Innovazione digitale nei Beni e attività culturali. Quanto conta oggi questa dimensione nell’offerta espositiva?
Quello dell’innovazione nella fruizione museale è un tema che oggi coinvolge il sistema culturale e scientifico a livello internazionale, e con cui anche il Museo Egizio si sta seriamente confrontando. Ne è concreta testimonianza la mostra temporanea in corso nelle nostre sale, dal titolo “Archeologia Invisibile”, che indaga, proprio attraverso il ricorso alla tecnologia, la biografia dei reperti. Un percorso espositivo che propone, ad esempio, gli sbendaggi virtuali delle mummie di Kha e Merit e la stampa 3D dei loro monili, la visualizzazione con immagini tridimensionali del sito di scavo a Saqqara, la riproduzione del sarcofago di Butehamon in videomapping. Strumenti preziosi per approfondire e ampliare i livelli di conoscenza e comprensione, in un contesto in cui l’impiego del digitale consente l’esplorazione di dimensioni altrimenti non facilmente accessibili a un pubblico eterogeneo come quello dei nostri visitatori.
Come cambia allora l’esperienza museale?
Il ricorso a tecniche espositive di questo genere non può in alcun modo surrogare la fruizione tradizionale di un museo, ancor più in ambito archeologico. Si tratta piuttosto di un’opportunità per ampliarla e ripensarla attraverso la chiave interpretativa di questi nuovi linguaggi, al fianco della quale resta comunque insostituibile il “contatto” diretto con l’oggetto reale, con il reperto. Nel ripensare il ruolo che i musei hanno oggi e possono avere nel futuro dobbiamo, quindi, sempre ricordare il motivo primario per cui sono stati fondati: per essere il luogo in cui oggetti del passato potessero essere conservati. Le forme di fruizione si evolveranno ulteriormente, è certo, ma noi saremo sempre chiamati al compito di migliorare l’esperienza visiva, estetica e intellettuale di ogni visitatore quando si trova di fronte a un reperto, cercando di fornire tutte le informazioni e, attraverso ogni modalità disponibile, saremo capaci di arricchirne l’esperienza e la comprensione.
Torino è stata spesso indicata come centro di sperimentazione di modelli innovativi di governo della cultura, che hanno fatto emergere forme di gestione collaborative e più partecipate. È ancora così?
Il Museo Egizio è stato tra i primi a dotarsi di una fondazione, proponendosi come modello di gestione pubblico-privato. Da diversi anni la cultura è per Torino un elemento costitutivo, il perno attorno al quale si costruisce l’identità urbana. La cultura deve però permeare tutta la città e il Museo deve essere al centro di una rete di attori aperti a tutta la cittadinanza.
In questo contesto, sono molte le aziende che investono sulla cultura e sull’industria creativa a Torino e in Piemonte? Quali prospettive apre questo tipo di collaborazione?
Rileviamo una crescente attenzione delle imprese a investire nella cultura, sia per dare più valore alla propria comunicazione sia per dar seguito alle politiche di responsabilità sociale, investendo nella cura di un patrimonio – quello custodito dai Musei – giustamente percepito come universale. Le partnership con imprese private possono poi inserirsi in quello che, sin dal principio, abbiamo definito come precipuo compito del Museo, ovvero la ricerca. Sono numerosi gli ambiti di applicazione tecnici nei quali le imprese possono usare il Museo come luogo di sperimentazione; penso alla sicurezza dei reperti, alla gestione dei flussi, alla climatizzazione degli ambienti, e molti altri sarebbero gli esempi. Il Piemonte è la regione italiana che registra il maggior numero di enti beneficiari registrati (ICOM, 2018), segno che il tessuto regionale è particolarmente aperto a questo tipo di collaborazione. Gli scenari futuri possono essere molto positivi, con le imprese protagoniste di una dinamica di forte sviluppo per il settore della cultura.
In Italia oggi c’è più consapevolezza sul valore strategico dei beni culturali, anche sotto il profilo dell’indotto economico e dell’occupazione, rispetto al passato. Lei ha studiato e lavorato molto all’estero, soprattutto nei Paesi Bassi. L’Italia ha recuperato il gap in questo senso?
Nel 2018 è stata realizzata un’indagine per verificare l’impatto della Fondazione Museo Egizio sul territorio. I risultati sono stati molto confortanti: l’impatto totale su tutta la provincia di Torino è stato valutato pari a 187 milioni di euro. Questa è la ricaduta economica sul territorio, che misura la capacità del museo di attivare lavoro e risorse in molte delle filiere produttive locali, anche distanti da quella prettamente culturale. In Italia registriamo una crescente consapevolezza del valore strategico della cultura. Rispetto all’estero deve però ancora migliorare – secondo me – la capacità di fare sistema, di lavorare di concerto con gli altri attori del territorio per moltiplicare l’impatto delle politiche culturali. Credo che, in questo senso, i margini di miglioramento siano ancora importanti.
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