Non è passato molto tempo da quando si parlava tanto, a colpi di teoria più che di pratica, di teledidattica universitaria; capitava fino al giorno prima che il coronavirus sconvolgesse anche il mondo degli atenei italiani. Se ne parlava, appunto. Perché dal punto di vista della concretezza si procedeva – chi più, chi meno – […]
Gianni Rodari chiama, il Pakistan risponde
Il Pakistan è come un rigore tirato da un campione: non c’è alcuna possibilità di intuirne la direzione, semplicemente ti spiazza. Alla partenza molti ti raccomandano di fare attenzione. Al check-in dell’aeroporto di Pisa, il personale di terra esclama, quasi per farci ricredere: “Ma dove andate, a Islamabad? Siete sicuri?”. Come se non ce lo […]
Il Pakistan è come un rigore tirato da un campione: non c’è alcuna possibilità di intuirne la direzione, semplicemente ti spiazza.
Alla partenza molti ti raccomandano di fare attenzione. Al check-in dell’aeroporto di Pisa, il personale di terra esclama, quasi per farci ricredere: “Ma dove andate, a Islamabad? Siete sicuri?”. Come se non ce lo fossimo ripetuto abbastanza nei giorni precedenti alla partenza. Come se noi stolti incoscienti fossimo abituati a percorrere a cuor leggero queste rotte, considerate pericolose da tutte le autorità internazionali.
Il Pakistan invece, è un posto che dovremmo tutti visitare almeno una volta nella vita.
Un viaggio in Pakistan per parlare di educazione internazionale
Siamo venuti qui per puro caso, o forse, inch’allah, per un disegno già prestabilito.
Un anno fa durante un corso di lingua cinese presso il Beijing International Chinese College abbiamo fatto amicizia con la signora Sumeera Waheed e suo marito Adbul Wahid Mir, rispettivamente preside e vicepreside di una serie di scuole parificate diffuse nelle principali città del Pakistan.
Da subito, durante le poche pause a disposizione, ci sono sembrate persone eccezionalmente aperte, curiose di conoscere il nostro Paese così come di conoscere la Cina. Quando lo scorso maggio ci hanno formalmente invitato a partecipare alla loro conferenza sull’educazione internazionale e la globalizzazione, non abbiamo dovuto nemmeno pensarci. Nella nostra mente avevamo già accettato.
La famiglia Wahid ogni anno, con la partecipazione delle maggiori scuole del Paese, organizza una convention sulla qualità dell’educazione chiamata SQC (Student Quality Circle). È sia un momento di riflessione e analisi che un’occasione di scambio internazionale, in quanto vi partecipano professori, educatori, ricercatori provenienti dal resto dell’Asia, America ed Europa.
La convention si svolge a circa 300 km da Kabul, ad Abbottabad, la città in cui il 2 maggio 2011, con un’operazione di intelligence, fu catturato e ucciso Osama bin Laden. Abbottabad è un concentrato di colori e polvere; un’arteria di asfalto sventrato l’attraversa dividendola in due sezioni, come una specie di Spaccanapoli sgarrupata. È circondata da minareti accampati qua e là, che per cinque volte al giorno scandiscono la preghiera cominciando presto, molto presto, prima dell’alba. Da lontano si intravedono le montagne che conducono da un lato al passo verso l’Azhad Kashmir (“libero Kashmir”, ovvero la porzione pakistana dell’immensa regione), e dall’altro verso l’Afghanistan.
Gianni Rodari arriva in Pakistan: un autore per rappresentare l’Italia e la creatività
Contro ogni pronostico e nonostante le apparenze, è proprio qui che simbolicamente la famiglia Wahid ha deciso di tenere questa convention. Nel 2014 dovettero sospenderla per un grave episodio di violenza, e anche quest’anno era a rischio per le forti manifestazioni che dalla capitale Islamabad si stavano trasferendo nel resto del Paese.
Nonostante il regime militare e fiancheggiatore di Musharraf sia terminato e questi sia stato condannato per la morte dell’avversaria politica Benazir Bhutto, la fragile politica riformista messa in atto dal premier Imran Khan deve fare i conti con il fanatismo e i legami tribali, restii al cambiamento e ancora presenti nel Paese.
Scegliere che argomento portare per la nostra presentazione non è stato semplice; volevamo portare qualcosa che fosse identificabile con l’Italia, ma che allo stesso tempo non urtasse la sensibilità degli studenti, non sapendo quanta libertà avremmo potuto prenderci e in che modo avremmo potuto interagire con loro.
Dopo molte riflessioni e molti autori passati al setaccio abbiamo scelto di parlare di Gianni Rodari e della sua opera maggiore, La Grammatica della fantasia, pubblicata da Einaudi nel lontano 1973 ma fondamentale ancora oggi per chiunque voglia parlare di immaginazione, o meglio di educazione alla creatività, ai giovani bambini, agli adolescenti o perfino agli adulti. Un autore di cui centinaia di scuole italiane continuano a portare il nome, ma di cui si sta perdendo la testimonianza della fantasia senza freni, del gusto per la creatività manuale, della collaborazione straordinaria con un artista-designer-inventore come Bruno Munari.
In un auditorio gremito, con educatori e presidi che da tutto il Paese avevano raggiunto Abbottabad, abbiamo parlato di quali sono i meccanismi che dobbiamo attivare se vogliamo produrre un’opera fantastica. Il “binomio fantastico”, ovvero due parole che pur slegate logicamente vengono messe l’una accanto all’altra per gioco, scatena una serie di associazioni e connessioni dalle quali in maniera prodromica si forma il narrato della storia. Abbiamo letto e ricostruito le storie classiche e le favole (Rodari le chiamava le “favole a rovescio”) da angolature diverse, un po’ come succedeva in Rashomon di Kurosawa, o anche in Pulp Fiction.
Alessandro Ferro, che viene dal mondo della mediazione culturale e dell’insegnamento, si sentiva a suo agio. Io, al contrario, ero nervoso. Non riuscivo a intravedere alcun sorriso in quelle facce già precocemente cresciute, che ogni giorno devono affrontare pensieri decisamente troppo grandi per la loro età. Un pensiero, il mio, rivelatosi presto del tutto infondato.
La fantasia italiana spiegata ai giovani pakistani
Durante la presentazione, che abbiamo dovuto interrompere per rispetto al canto del muezzin che chiamava alla preghiera, una miriade di occhi nerissimi e sgranati, alcuni dei quali risaltavano da sotto il velo, ci seguivano frementi, ansiosi che andassimo avanti e arrivasse anche per loro il tempo di esprimersi. Presentando l’Italia abbiamo detto che le differenze culturali, nonostante una recente politica bieca e sovranista, hanno sempre costituito la forza del nostro Paese; che l’italiano è il risultato di una moltitudine di culture che si sono succedute, lasciando una traccia indelebile nella lingua, nella cucina e nell’architettura in modo così marcato da non avere pari in nessun altro popolo europeo.
Un breve video di Bruno Bozzetto a corredo della nostra tesi ha messo in correlazione la passione tutta nordeuropea per le regole con il bizzarro e creativo anarchismo italico, scatenando le risate del pubblico.
Poi ci siamo rilassati, passando dalla teoria alla pratica. Abbiamo diviso la platea in quattro gruppi e assegnato loro delle parole apparentemente senza senso, come vino e ape, oppure professore e rapina. Quindi abbiamo chiesto loro di comporre una storia e il suo opposto. Dopo 15 minuti ne sono uscite storie inaspettate, alcune degne di essere illustrate, altre più realistiche e meno fantasiose. Comunque, il messaggio è stato recepito in modo chiaro.
L’educazione pakistana è un atto sociale
La voglia di realizzare i propri sogni, l’amicizia per i compagni e le compagne che si vorrebbe eterna, il desiderio di diventare un modello positivo e di ispirazione per tutta la società; nei giovani pakistani abbiamo trovato pensieri assolutamente nobili, sebbene il loro Paese venga spesso etichettato come fiancheggiatore o addirittura culla del terrorismo. Come se esistesse solo lì e non da altre parti. Come se anche il terrorismo non fosse uno strumento manovrato a piacimento dalla politica internazionale, con gli alleati di ieri che diventano i terroristi di domani (basti pensare all’Afghanistan).
Il Pakistan ha voglia di essere ricordato per cose positive. Nei cortili delle scuole che abbiamo visitato in questa settimana, nell’area compresa tra Abbottabad, Manshera e Rawalpindi, campeggiano le effigi degli studiosi pakistani più illustri. Tra questi mi ha colpito quella di Arfa Karim, la più giovane informatica al mondo a conseguire il titolo di Microsoft Certified Professional direttamente dalle mani di Bill Gates, a soli 12 anni; scomparsa prematuramente per via dell’epilessia, è una vera e propria eroina nazionale.
Questa insaziabile brama per il sapere e la fortuna, insieme a un notevole carico di responsabilità che questi studenti portano sulle loro spalle, mi hanno fatto pensare al Gavino Ledda di Padre Padrone, oppure al giovane protagonista de L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi: per il rispetto verso i sacrifici fatti dai loro genitori nel pagare le rette scolastiche, ma soprattutto, nel caso dei maschi, per il fatto che i padri hanno dovuto privarsi di giovane forza lavoro.
L’educazione per questi ragazzi non è mai un atto individualistico. Al desiderio di migliorarsi si sommano le aspettative della famiglia e la speranza che il proprio Paese possa uscire dall’isolamento, per ottenere un posto di meritato rispetto.
Ciò che resta del viaggio in Pakistan: un passato che cerca memoria
Lungo la strada per l’aeroporto ci siamo fermati presso le rovine archeologiche di Taxila.
Qui, nel cuore del vecchio regno di Gandhara, sorgeva uno dei centri educativi sacri al mondo buddista, straordinariamente conservato: una scuola che accoglieva studenti dalla Persia, indo-greci discendenti di Alessandro Magno, Moghul; studenti di provenienza diversa, che venivano accettatati per le loro qualità e il loro impegno. Un modello di convivenza unico che oggi, con molta fatica e attraverso generose donazioni, il professor Khan sta cercando di promuovere.
Il professore sorride dietro la lunga barba rossastra quando un venditore, gridando iskander, iskander (il nome di Alessandro magno), cerca di venderci una moneta con incisa l’effige del grande generale – ovviamente falsa. Mi dice che qui tutti sono intenti a fabbricarsi un passato immaginario quando davanti agli occhi ne hanno già uno glorioso, che ignorano.
Annuisco alle parole del professore, ma poco dopo tratto con il venditore e compro quella moneta. Ho bisogno di tenere vivo nella memoria questo posto, ciò che ha rappresentato e ciò che spero possa rappresentare in futuro.
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