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Cinque sfumature di Consulenti (Freelance)
Consulenti. Ormai sono dappertutto. Se fino a qualche anno fa si nascondevano dietro a grossi nodi di cravatta e scarpe a punta quadrata nei palazzoni di Andersen Consulting, Boston Consulting, Deloitte Consulting (no, non finiscono tutti per ing, ci sono anche:) Cap Gemini o Ernst & Young, i consulenti aziendali si sono moltiplicati. Sporadi senza controllo, […]
Consulenti. Ormai sono dappertutto.
Se fino a qualche anno fa si nascondevano dietro a grossi nodi di cravatta e scarpe a punta quadrata nei palazzoni di Andersen Consulting, Boston Consulting, Deloitte Consulting (no, non finiscono tutti per ing, ci sono anche:) Cap Gemini o Ernst & Young, i consulenti aziendali si sono moltiplicati. Sporadi senza controllo, infestano le aziende con centinaia di slide che una volta depositate sul tavolo del Managing Director troveranno degno utilizzo nel campionato interaziendale di aeroplanini.
Il mercato del lavoro li ha cambiati. Il consulente aziendale era una figura ricercata per la quale le telefonate avevano un unico senso: in entrata. Ma anche una dignità professionale avvalorata da parcelle milionarie a fronte di una preparazione commerciale e finanziaria costruita a contatto con figure di alto livello che tramandavano conoscenze ed esperienze mai più ripetute. Non ci sono più i senior di una volta direbbe mia nonna se ne capisse di senior.
La parola consulente oggi, mormorata in azienda a bassissima voce, rappresenta due cose: o il capro espiatorio a cui affidare le decisioni più o meno strategiche al fine di liberarsi da responsabilità dirette in caso di fallimenti o prendersi i meriti nel caso di successi (“non dipende da me: ha deciso il consulente” / “Quel consulente l’ho scelto io; ero certo che ci sapeva fare!”), oppure la più grande rottura di palle da cui farsi filtrare con il supporto di segretarie e collaboratori conniventi.
E così la consulenza nelle sue mille varianti rappresenta la scialuppa di salvataggio più facile da dirigere nel mare in tempesta del cambiamento forzato, a cui pochi credono ma tutti devono piegarsi.
Eppure in molti pensano che la difficoltà ad accreditarsi presso le aziende sia dovuta a questo numero esponenziale di ex manager riciclati in attività consulenziali, quando invece è sempre più evidente che tale difficoltà sia rappresentata dalla qualità dei partecipanti al ruolo che più che strateghi del business di lunga distanza sembrano dei suggeritori mal pagati di attività a breve termine.
Credere di poter affrontare qualsiasi mercato e qualsiasi tipo di azienda è il primo degli errori in cui incorre chi si presta alla consulenza. Un passato da manager – spesso monoazienda – non garantisce affatto la capacità di poter affrontare temi e situazioni con la stessa scioltezza con cui in un passato recente, si battevano i pugni sul tavolo e si prendevano decisioni al dettaglio. Tuttavia, un passato d’azienda garantisce competenze e dinamiche che un consulente deve necessariamente aver affrontato, ma è fondamentale il distacco con cui si approccia una decisione quando l’azienda non è più l’azienda in cui passerai il resto della tua vita. Il consulente per scelta ha deciso che non sarà mai di nessuno, il consulente per necessità proverà sempre ad essere di qualcuno.
Non basta un sito internet ed un biglietto da visita nuovo per diventare consulente. Uscire da una storia aziendale è come essere stati lasciati da una fidanzata decennale. È un tradimento: le ore passate a gestire reclami, a conquistare clienti difficili o a riconquistare clienti affabulati dai competitori, progetti internazionali portati a casa solo grazie al proprio temperamento, prodotti vincenti grazie a quel canale di vendita a cui nessuno aveva pensato, oggi non contano più. Il cliente non è la discoteca dove torni dopo 20 anni che non andavi più a ballare, solo per il gusto di far vedere al tuo vero amore che puoi farcela anche senza di lei. Sei patetico, e il cliente se ne accorge. Nelle tue parole, nel tuo sguardo, nelle cose che racconti, c’è sempre il ricordo della vostra prima gita. E il cliente non compra chi non lo ama spassionatamente.
Lo dico a tutti sui social network, faccio foto, vedo aziende, oggi parliamo di… Nascono freelance per generazione. Magari una piccola esperienza di tre-quattro anni in azienda l’hanno fatta, ma non ha portato da nessuna parte. Non sono come i loro padri che sono nati e morti in azienda e non è stato difficile per loro capire che non sono tagliati per lo stesso destino. Sono anime libere, non amano vendere. Non sanno vendere. Telemarketing è il nome di una tortura praticata a Guantanamo. Si prodigano in pagine aziendali su Facebook dove non c’è dialogo, per promuovere libri e corsi di formazione innovativi quanto autoreferenziali (oggi siamo in Credito Cooperativo a parlare di e-commerce!). Follower di rimbalzo che aumentano la notorietà ma non ne garantiscono la qualità. E al momento della resa dei conti ne fanno la spesa i consulenti più preparati. Quelli a cui il cliente dirà: “ho bisogno di lei ma non ho più budget. L’ho dato tutto a quello prima…“.
Quando insegni non vendi. Bisognerebbe che qualcuno ogni tanto lo dicesse a coloro che diventano formatori, docenti o (professional, life, spiritual, personal, family, animal, e chi più ne ha più ne metta) coach. Senza entrare nel merito di chi fa aula senza aver mai avuto esperienza di pubblico e quindi si presenta con slide fittefittefitte come il foglio di word in cui è stato impresso in timesNewRoman punto 6 tutto l’Ulisse di Joyce, bisognerebbe spiegar loro che il modo migliore per farsi comprare è trasmettere conoscenza e competenza. Non sei più quello di quell’azienda là: continuare a ripetere cosa hai detto e cosa hai fatto quando eri, è noioso e non trasmette nulla a chi ti ascolta. Chi decide di insegnare deve essere un ripetitore senza freni di idee e visioni, altrimenti si prenda il tempo giusto e gli spazi giusti per tessere una strategia di autopromozione efficace. Cercare lavoro – lo dicono tutti – è un lavoro. Che non puoi fare mentre lavori.
E infine, non dimentichiamo gli impiegati a partita IVA. Perché, se da una parte è vero che ci sono persone poco adatte al mestiere di consulente, dall’altra ci sono persone poco adatte a quello di imprenditore. Facendo il recruiter non è raro che qualche azienda mi chieda un direttore commerciale che accetti un contratto da libero professionista. Queste richieste sono dei veri e propri Frankenstein dell’intelligenza manageriale dell’imprenditore tutto italiano, che non ha ancora capito che in tempi di crisi non bisogna sfruttare la grande disponibilità di candidati alla ricerca di un lavoro a qualsiasi costo, ma piuttosto fare leva sulla sicurezza di un lavoro affidabile, in cui il pensiero del dipendente non sia ogni giorno guardare fuori dalla finestra alla ricerca di qualcosa di più stabile e definitivo, ma sia invece come crescere insieme.
Ma come disse qualcuno, siamo solo di passaggio.
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