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Circular working: fuori dalla scatola, dentro un circolo.
Il lavoro sentirà presto parlare di Circular Working: definire l’identità lavorativa non attraverso l’appiattimento, ma la valorizzazione delle differenze.
Il lavoro oggi ha una complessità, una ricchezza, una precarietà che sfuggono a ogni tipo di previsione e di effettiva replicazione.
Forti di schemi organizzativi e sintetici, stiamo tentando, con slogan come smart, sustainable, agile, innovative, 4.0, di ridurre quella complessità a singoli aspetti caratterizzanti. Ma la verità è che il lavoro è un costante, imprevedibile, flusso di umanità e di valore; è capacità di rivolgersi alle cose col desiderio di migliorarne la globalità, effettivamente e non solo apparentemente. Il lavoro ha mangiato se stesso: l’attività del misurare, controllare, pesare, riferire ha superato il progettare, costruire, collaborare, sognare.
Che cos’è il lavoro, oggi
Il lavoro non è una pratica da governare, non è un ruolo, è esito, è auto-poiesi (capacità di un sistema complesso vivente di mantenere la propria unità e la propria organizzazione, attraverso le reciproche interazioni dei suoi diversi componenti). Il lavoro non può essere orfano di uno scopo connesso, di una visione finale, non può essere separato dalla molteplicità di contesti e di ricadute, ambientali, sociali, territoriali, economiche. Il lavoro è sensibile, necessario, largo, variabile e non formulaico (non confezionato come una formula, con elementi che si ripetono fino a diventare standard), non si risolve con un ricettario.
Agire il lavoro significa costruire progetti di socializzazione, piani di sperimentazione per la scoperta e l’apprendimento di competenze aumentate; significa formare un’intelligenza collettiva e una flessibilità operativa che non sono proprie delle tradizioni, ancora orientate al mondo com’era, a una produzione interpretata come standard e serialità, alla specializzazione, ai mansionari, alla esecuzione, ma soprattutto che non sono soggette all’applicazione continua di pratiche separative che riducono le identità a ruoli, a funzioni (finanziarie, produttive, creative, artigianali, di servizio) tra loro impermeabili. L’idea di lavoro e di prodotto del lavoro si è espansa: dall’attenzione a un utilizzatore/consumatore/acquirente solitario si è spostata a una rete di cose/luoghi/persone connesse a tutto il mondo. I prodotti del nostro lavoro sono processi d’uso e non strumenti finiti in sé per uno scopo unico, determinato. Anche un’attività primaria come cibarsi, oggi, non è più atto solo nutritivo, ma azione ricchissima di implicazioni su tutti gli assi della vita sociale, naturale, simbolica, linguistica, ambientale. Non ci si può occupare di alimentazione senza pensare l’ecosistema naturale, dei suoli, delle persone.
La scala di ciò che stiamo lavorando si è spostata dai prodotti alle aziende, ai sistemi d’uso, alle correlazioni dei sistemi. Non popoliamo più funzioni precise, ma uno spazio collettivo fatto di insiemi tra loro permeabili, multidimensionali. Abitiamo un rizoma (per dirlo con Deleuze/Guattari), un luogo nel quale più attività si compiono contemporaneamente, senza gerarchie, senza ingressi e uscite predeterminate.
Le funzioni definite, principale asse organizzativo delle imprese e delle società industriali, hanno prodotto silos e filiere separate (delle materie prime, delle produzioni, della distribuzione, del consumo, dei rifiuti), tra loro indipendenti secondo un modello di controllo per astrazione: astratte dai sistemi, dalle conseguenze, dalle connessioni, dalle collaborazioni. Astratte dalle pratiche dello scambio, e quindi sempre più in allontanamento dall’ascolto, dalle necessità vere delle persone e delle comunità. O i prodotti si impongono sui mercati o si ha crisi. Si cerca di rimediare ancora una volta per slogan: le persone al centro, lo human design al centro. Paradossi mercantili vestiti da verità.
Il desiderio di Circular Working
Si possono pensare quei modelli separati, invece, come frammenti di flussi interlacciati, dipendenti reciprocamente; vanno osservati con sguardo di prospettiva. Alla linearità del tempo e degli accadimenti si sostituisce l’idea di un tessuto, di un intreccio che vede ogni evento come una orditura, che trova la propria forma nell’intersecarsi dei saperi scientifici ed emozionali. Quella che Edward O. Wilson (premio Pulitzer per i suoi studi sulla infinita battaglia tra emozioni umane e sofisticazione delle tecnologie) ha chiamato Consilience.
Ciò che stiamo imparando è che il Novecento ha basato le sue sfide sulla finitezza delle posizioni e delle descrizioni: forse questo secolo ha invece voglia di infinito, di abitare ipotesi e dinamiche, non statiche e solipsistiche definizioni; ha voglia di conversazioni aperte e non di lezioni chiuse.
I prodotti del lavoro, gli interventi sulla dimensione dell’abitare gli scambi, si stanno trasformando in una rete di possibilità fatta di persone, mercati, oggetti ed economie, la cui caratteristica principale è quella di essere in relazione tra loro. Ed è, questo sistema di relazione, non più da basare sull’omologazione, quanto sulla convergenza tra le differenze. I social network hanno reso chiaro il principio delle camere dell’eco (luoghi frequentati da persone che si somigliano e confermano reciprocamente): ora è il tempo di diventare consapevoli che anche la globalizzazione, e con essa l’omologazione degli usi, dei prodotti e dei modi del lavoro, è basata sulla pratica ecoica del riuso e rilancio continuo dello stesso messaggio. Si può comprendere, ora più che in ogni altra epoca, che la specificità (la diversità) di luoghi, di abilità, di culture, anche nel microcosmo di una impresa, è la vera ricchezza e il sedimento dal quale costruire valore.
Abbiamo dato priorità all’accumulo di conoscenze specialistiche codificate a tal punto che non sappiamo riconoscere i problemi macro, né sviluppare soluzioni che risolvano le cose in modo connesso. Presto inizieremo quindi a parlare di Circular Working per desiderare un sistema che inserisca le attività più profondamente in un contesto sociale e temporale: anche il lascito (l’heritage) per il futuro diventerà connotazione primaria del fare impresa.
Lavorando generiamo sempre significati, non solo prodotti. L’uomo non è, diviene. Appartiene ad un processo, diviene noi, nello stare insieme di conoscenze diverse.
Il circolo delle differenze
La filosofa femminista e fisico quantistico Karen Barad, a proposito delle ricchezze nella diversità di genere, si chiede: “E se dovessimo riconoscere che la differenziazione è un atto materiale che non riguarda la separazione radicale, ma al contrario, il costruire e riconoscere connessioni e impegni?”.
Se la smettessimo di rendere omogenee le identità, se la finissimo di appiattirci sugli obiettivi, se rifiutassimo i concetti di team building, di formule di leadership, di stili di management, di somiglianza, di omologazione, di unione tra simili, per affrontare e potenziare invece il principio attivo delle differenze? Si aprirebbero spazi per nuovi destini, per competenze ibridate: dimensioni del lavoro basate su intrecci fatti di link, di nodi, di tracce, rimandi, segmenti, percorsi.
La filosofa australiana Elizabeth Grosz spiega che “il controllo delle nostre vite si compie attraverso la costruzione delle nostre identità. Scoprire chi si è, significa piegarci a un addomesticamento delle innumerevoli possibilità che esistono”. Le categorizzazioni (di identità) sono uno dei “principali mezzi attraverso i quali la differenza viene convertita”, da principio attivo a residuo passivo. La differenza viene deviata attraverso l’identità di schema, l’identità per omologie. L’identità (essere quel ruolo) è diventata un principale strumento delle strategie riduzioniste finalizzate al risultato-subito, al risultato-nonostante-le-conseguenze.
L’identità al lavoro, nella diversità dell’unico, ha invece tutte le potenzialità per un’apertura, per una ricchezza. Identificandoci con le cose che facciamo ci impegniamo in una pratica discorsiva ampia, fatta di credenze e nuovi rituali. Significa disporre di tanti potenziali per sentire, pensare e fare con differenza. Avere persone emotivamente più sensibili e più aperte alle diversità del mondo può generare una grande crescita.
Le differenze permettono di andare avanti e oltre la struttura dell’identità di schema, riconoscendo la pluralità come la forza che abilita qualsiasi tipo di possibilità emergente. Dal separarci perché differenti al connetterci perché differenti: quando si tratta di persone, l’elemento più importante è quello di una diversità nella comprensione, nella consapevolezza e nell’anticipazione di un’esperienza di vita animata e connettiva.
Stare sulle differenze e non omologare significa riscoprire diversi valori oggi sopiti: porosità, sensitività, immaginario, appartenenza, impegno, adesione, trasversalità, trasformazione. Tutte nuove parole del circolo del lavoro.
Photo by Fabio Santaniello on unsplash
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