Conflitti e inclusione sul lavoro: nelle aziende solo chiacchiere e storytelling

Anna Paola Simonetti, esperta di gestione interculturale, intervistata da SenzaFiltro: “Sia PMI che multinazionali sbagliano approccio, con le culture diverse dalla propria. E i risultati sono disastrosi”.

È ormai da troppo tempo che i conflitti – veri o presunti – fanno parte della nostra vita: anche quelli che ogni giorno viviamo sui luoghi di lavoro.

Quello vero, di conflitto, che da più di cento giorni si perpetua in Ucraina, è la punta dell’iceberg in cui fazioni contrapposte cercano di sconfiggere e prevaricare la parte avversa subendo perdite altissime. Un punto di non ritorno.

Se anche il mondo del lavoro rischia di essere sempre più conflittuale e incapace di far convivere al suo interno culture differenti, “Lavorare con il nemico” potrebbe essere il titolo di ciò che accade a ognuno di noi entrando nel proprio ufficio.

Anna Paola Simonetti dal 1992 opera sia in Italia che all’estero come consulente aziendale. Nel 1995 ha iniziato a collaborare con Itim International, oggi conosciuta come Hofstede Insights: è esperta di gestione in ambito interculturale e lavora per le più importanti imprese italiane e internazionali, collaborando con le principali università del nostro Paese.

Sul palco di Nobìlita, come ospite del primo panel – “Lavorare con il nemico”, appunto – Anna Paola Simonetti ha affermato: “È necessario trovare una terza via: i valori culturali reciproci siano rispettati ed esplicitati”.

La raggiungiamo per porle alcune domande.

Anna Paola Simonetti prima di salire sul palco del Nobìlita Festival.
Anna Paola Simonetti prima di salire sul palco del Nobìlita Festival Photo@DomenicoGrossi

Pensando alle multinazionali che operano nel nostro Paese, ma anche alle PMI con divisioni all’estero – dove gli scambi lavorativi tra colleghi di Paesi diversi sono attività quotidiane – quanto è complesso trovare una terza via?

È molto complesso, perché quando si lavora o si tratta l’argomento cultura in questo caso si toccano i valori fondanti di ognuna di esse. Sappiamo bene che nel momento in cui qualcuno e in qualsiasi modo – con il proprio comportamento, con il proprio modo di fare, con la comunicazione – contrapponendosi ai nostri valori, offende la nostra cultura, ci fa sentire molto coinvolti, e allo stesso tempo feriti sul piano emotivo. Per cui il fatto di trovare un punto d’incontro sui valori culturali è assai difficile, perché significherebbe che nel compromesso ciascuno rinunci a qualche cosa per arrivare a una soluzione. Per quanto riguarda i nostri valori culturali, ognuno di noi ha grande difficoltà a rinunciarvi perché siamo cresciuti con essi: nei primi anni della nostra vita sono stati metabolizzati e fatti nostri, per cui accantonarli, anche se in minima parte, è parecchio difficile.

E allora come si fa?

Quello che io cerco sempre di fare nelle aziende in cui lavoro è prima di tutto far divenire consapevoli le persone di quali siano i valori della propria cultura affinché si possano poi confrontare con quelli appartenenti a una diversa cultura, rendendoli espliciti.

Che cosa succede quando sul lavoro parliamo di relazioni gerarchiche? Non tutte le culture hanno la stessa idea di gerarchia.

Nella nostra cultura italiana abbiamo un grande rispetto per la gerarchia: il nostro capo è il nostro riferimento, e allo stesso tempo temiamo che non ci faccia fare carriera; c’è una distanza di ruoli all’interno della gerarchia di un certo tipo. Ma ci sono altre culture dove i rapporti gerarchici esistono solo per far funzionare il meccanismo organizzazione-azienda: qui il rapporto tra il sottoposto e il responsabile di riferimento è allo stesso livello, è paritetico. È importante riuscire a individuare i propri valori culturali e quelli della controparte, in modo tale che ci si possa capire su diversi fronti. Questo consente poi, con intelligenza e creatività, di trovare un altro modo per collaborare e operare insieme per raggiungere i propri obiettivi.

Quanto è presente il rischio dell’incomunicabilità sui luoghi di lavoro dove convivono culture differenti?

Le faccio un esempio. Lavorando di recente con un’azienda italo tedesca il problema era capire come gestire le riunioni in maniera efficace: dal lato tedesco sappiamo come loro amino l’organizzazione, avere un’agenda condivisa e soprattutto rispettarla. Degli italiani sappiamo invece che se c’è un’urgenza si punta a tralasciare l’agenda, dandole priorità. L’aspetto che può conciliare entrambe le aspettative valoriali sta nel pensare a come inserire all’interno dell’agenda tedesca un punto all’ordine del giorno per spiegare che, se dovessero presentarsi delle urgenze, queste dovrebbero essere trattate. In questo modo entrambe le parti non hanno rinunciato ai propri valori, ma hanno trovato il modo di farli combaciare.

Immaginiamo un’azienda italiana al 100% che ha al proprio interno dipendenti e collaboratori provenienti da Paesi e culture differenti: pensa che l’Italia sia pronta o si sta invece dimostrando ancora provinciale sotto questo punto di vista?

Mi dispiace ammettere che le aziende italiane sono ancora piuttosto indietro su questo aspetto. Mi spiego meglio: ancora oggi si parla di “diversity” o “integration”, ma sono ancora tante belle parole. Dietro l’angolo si cela sempre lo stereotipo negativo. Un mio cliente, imprenditore italiano, mi raccontava di come avesse l’impressione che un suo collaboratore di origine indiana non fosse in grado di svolgere il lavoro richiesto; nonostante gli fosse stato spiegato diverse volte, continuava a chiedere delucidazioni. Lo dico sempre: alla terza domanda che ti fa l’interlocutore straniero, fermati! Significa che c’è sotto qualcosa, in un modo o nell’altro non è in grado o non ha la capacità di fare ciò che chiedi. È inutile ripetere di continuo la direttiva, ma è indispensabile fermarsi e fare domande aperte per capire qual è il problema, per comprendere che cosa si nasconde dietro questi interrogativi. Diciamo che in Italia non hanno queste competenze né le PMI, né le grandi aziende, né le multinazionali. Purtroppo queste ultime riflettono le politiche di gestione del personale nate negli Stati Uniti, o comunque nel mondo anglosassone. C’è ancora una grande difficoltà sulla cultura: eppure in essa siamo quotidianamente immersi e i valori culturali guidano e motivano sia la vita privata che quella professionale. Sarebbe molto importante conoscere le diverse culture per rispettarle, interpretarle e gestirle. 

Le multinazionali nel loro agire d’impresa prestano attenzione alla diversità culturale?

A proposito delle multinazionali globali, quando devono pensare a una visione strategica, tendono a raggruppare tanti Paesi diversi – come Stati Uniti, Canada, America Latina – in una sola “region”, immaginando che la strategia che funziona in Europa tra Francia, Italia e Germania sia la stessa per Cina e Russia, considerandola pertanto valida per tutti i Paesi. Non è così: da una nostra ricerca che abbiamo condotto su più di cento Paesi potremmo dimostrare come l’America Latina non è composta da culture uniformi, così come le culture dell’Europa dell’Est non sono tutte assimilabili. Spesso si ritiene che una strategia così impostata sia efficace solo perché queste culture hanno una vicinanza geografica, o semplicemente perché fa comodo pensarlo: è del tutto sbagliato e conduce a business disastrosi.

Con l’acronimo EMEA (Europe, Middle East, America) si indica un mercato omogeneo di riferimento strategico. È corretto raggruppare insieme questi Paesi e le loro culture?

Non c’entrano nulla. Solo dopo averlo fatto si scopre che questi approcci sono sbagliati e rischiano di diventare errori irreparabili. Anche per le stesse strategie di business è impossibile pensare che una leva di marketing utilizzata per un Paese possa essere efficace allo stesso modo in Paesi così diversi gli uni dagli altri. Per far comprendere questo mi piace mostrare ai clienti gli spot per uno stesso prodotto, per far capire come viene pensato in maniera differente nei diversi Paesi.

Penso all’attualità e al conflitto tra Ucraina e Russia: come possono convivere colleghi di lavoro ucraini e russi nella loro quotidianità, resa “diversa” dagli eventi?

Guardando i valori della cultura russa e della cultura ucraina, sono molto vicini: da un lato questo dovrebbe consentire una convivenza pacifica. Sono due culture che dovrebbero capirsi. Ma l’altro aspetto da considerare è quello relativo al fatto che, proprio essendo due culture contigue, nel momento in cui c’è un conflitto si scontrano esattamente allo stesso modo, rendendo uguale anche la stessa modalità di scontro. Per questo occorrerebbe un vero mediatore politico al fine di trovare la famosa terza via.

Sul palco di Nobìlita Anna Paola Simonetti ha anche affermato: “Lavorare partendo dalle somiglianze”. E se fosse questa la leva per trovare finalmente una terza via al conflitto?

Leggi il mensile 116, “Cavalli di battaglia“, e il reportage “Sua Sanità PNRR“.


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In copertina Anna Paola Simonetti, foto di Domenico Grossi

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