Connessioni e ossessioni tra Milano e provincia

Abbiamo scritto il libro dell’economia globale degli ultimi dieci anni con un solo lessico: per raccontare gli eventi importanti, comprenderli e governarli, abbiamo utilizzato solo il vocabolario tecnologico. Ora, senza chiederci il permesso, è tornata la lingua della geografia; con parole antiche, come confine, muro, territorio, e nuovissime, come logistica e infrastrutture.   Dalla tecnologia […]

Abbiamo scritto il libro dell’economia globale degli ultimi dieci anni con un solo lessico: per raccontare gli eventi importanti, comprenderli e governarli, abbiamo utilizzato solo il vocabolario tecnologico. Ora, senza chiederci il permesso, è tornata la lingua della geografia; con parole antiche, come confine, muro, territorio, e nuovissime, come logistica e infrastrutture.

 

Dalla tecnologia alla geografia

Il passaporto si mostra alla frontiera, ma in campo economico il territorio italiano che confina con l’estero è la Lombardia. Quando arriva qualcosa di nuovo, quasi sempre da un suolo straniero e passando da Milano, atterra lì.

Così le novità che oggi toccano il lavoro, l’impresa, la finanza, sono state tutte sperimentate prima in Lombardia. Artificial Intelligence, Blockchain, e-commerce, Digital Experience, Internet of Things, Cloud Computing, Big Data, etc. sono provenienti da un’unica dispensa; prescritte dai migliori medici dell’economia, quelli dell’ambulatorio di Davos o dal soccorso delle istituzioni economiche globali, sono entrate nell’organismo economico lombardo.

Malgrado alterni successi e diffuse resistenze, il messaggio tecnologico è arrivato ovunque – lo conferma la crescita graduale ma progressiva degli investimenti – e il suo corso è inesorabile; ma i confini che la tecnologia prometteva di abbattere sono davvero scomparsi? Se il vero confine economico italiano con il mondo è la Lombardia, è da qui che si vedono per prime anche le onde di ritorno della geografia. Quante? Infinite.

La crisi ucraina non solo ha messo in crisi il ruolo geopolitico dell’Europa ,ma ha aggiunto qualche difficoltà all’export italiano; le sanzioni contro la Russia hanno reso tortuosi i percorsi dei prodotti lombardi, e quelle contro l’Iran hanno lasciato senza soluzioni le imprese milanesi – tante, non solo manifatturiere – che vi hanno investito; il possibile cambio di regime in Venezuela avrà le sue conseguenze sul settore Oil&Gas, anche della bergamasca. I dazi USA e il muro con il Messico, anche solo ipotetico, toccheranno di certo qualche comparto della subfornitura del settore automotive della bassa padana; i veri dati dell’economia della Cina (pensavamo di essere gli unici a mentire) e la bomba Taiwan, sempre pronta a deflagrare su tutta l’economia asiatica, Giappone e Corea del Sud compresi, avranno conseguenze sugli investimenti cinesi a Milano e non solo; il terrorismo in Nigeria e Kenya ha cancellato per un attimo le rotte delle imprese italiane dell’edilizia, delle costruzioni e del turismo. Il tutto mentre la Turchia non fa dormire gli investitori industriali lombardi atterrati lì qualche anno fa, e ci svegliamo scoprendo improvvisamente che un prodotto alimentare in più venduto dalla Francia nel mondo è uno in meno fatturato dalle imprese nostrane.

Sono onde piccole e frammentate, improvvise e potenzialmente passeggere. Ma ognuna può essere uno tsunami per un territorio esposto, che produce una fetta grande del PIL del paese; ognuna può disegnare nuove mappe dell’economia globale in cui la Lombardia è immersa; ognuna può cambiare, in quantità e qualità, i percorsi che le imprese hanno costruito con fatica in questi ultimi anni post crisi. E ognuna ci impone di togliere dal cassetto il vocabolario della geografia – di nuovo – per cercare il significato di verbi come aprire/chiudere (porti e frontiere), attaccare/difendersi, colpire e proteggersi. Parole materiche che si oppongono a quelle intangibili della tecnologia, usate fino a ora.

 

Nuove mappe e nuovi settori

Per un’area a vocazione trasformatrice, abituata a mandare i suoi prodotti nel mondo, trovarsi davanti un nuovo confine non significa fermarsi, ma cercare un modo per aggirarlo commercialmente. Come accade per le imprese che oggi esportano in Russia passando per i Balcani (a proposito, in tre anni il presidente russo Vladimir Putin ha visitato Belgrado, Lubiana e anche Vienna).

Per questo, di fronte a difficoltà inedite, le imprese delle città lombarde devono disegnare mappe nuove. Fino al 2008 sono andate all’estero quasi per caso, senza un bagaglio completo di competenze, spesso sulla scia delle grandi aziende; la crisi globale le ha poi costrette a puntare sull’export con consapevolezza, investendo in formazione e acquisizione di manager dedicati, e ora che l’expertise sembrava raggiunta si rendono conto che hanno bisogno di nuovi avventurieri, navigatori e cartografi (vedi alla voce Marco Polo, Cristoforo Colombo e Matteo Ricci) perché la mappa del mondo sta cambiando ancora.

La geografia, testarda, rimette davanti ai manager che viaggiano e producono, nuovi valichi, frontiere e checkpoint. Li costringe a stress continui, e impone loro l’adozione di una generale circospezione, anche se chi vende, in particolare fuori da casa, è obbligato a portare in valigia un carico di grande ottimismo. Così muri, sanzioni, dazi e confini spazzano le strade vecchie e ne disegnano di nuove. E con queste tornano al centro della scena i settori “LIT”: logistica, infrastrutture e trasporti. È qui che si giocheranno le partite più importanti per il futuro dell’economia di tutte le infinite Lombardie che hanno rapporti economici con il mondo.

La centralità delle nuove vie di commercio e di trasporto si intravede anche dagli investimenti sui cui stanno scommettendo le grandi potenze economiche: già si esercitano a considerare l’Oceano Pacifico e l’Indiano come una cosa sola (citofonare India), tracciano una nuova autostrada del commercio che parta dalla Cina (One Belt One Road) e arrivi in Europa passando per la Russia; già considerano l’Artico come una via veloce per i container senza i rompighiaccio (dal nord del Canada o sopra la Russia, o da entrambe); già stanno cercando di capire se la miniera sudamericana diventerà più grande per tutti o solo per qualcuno, se si aprirà o si chiuderà (vedi alla voce Bolsonaro).

Così, mentre consolidano le loro connessioni liquide grazie alla tecnologia, le imprese hanno bisogno di manager in grado di creare connessioni solide che le colleghino fisicamente con il mondo nuovo: esperti di logistica, trasporti, imballaggio, rifiuto e scarto.

Anche per chi governa il territorio è finito il tempo per pensare ai confini immaginari interni, quelli di distretti, meta-distretti, filiere e nuovi triangoli industriali; bisogna invece tenere il polso dei mercati globali e conoscere i confini fisici che li stanno separando in nuove aree di influenza politica. Da queste verrà infatti ridefinita la mappa dei confini economici interni, verrà distribuito il lavoro, si svilupperà l’impresa, e la finanza deciderà dove atterrare. Qui – con o contro Paesi vicini-vicini o vicini-lontani – si giocheranno le battaglie determinanti per l’economia interna, come già testimoniano i casi di TAV, TAP, e immigrazione.

Ma non è tutto. I confini torneranno decisivi anche per la disputa sulle risorse, come l’acqua (non solo quella da bere, ma quella agricola), la terra (non solo quella su cui costruire, vedi alla voce inquinamento nel Pavese), l’ambiente (compreso quello atmosferico), e la loro gestione pubblica e anche privata.

È nella capacità delle aziende e delle città lombarde di entrare e rimanere in questi nuovi collegamenti materiali con il mondo che si disegnerà il loro futuro. Più saranno gli esclusi da queste connessioni e più sarà difficile trovare linfa per la crescita; perché la Lombardia è ormai ostaggio della globalizzazione, ed è condannata a decifrarne le nuove rotte, anche per conto di tutto il Paese.

 

Milano e il resto del mondo

Le connessioni materiali e i confini fisici sono anche il terreno di conflitto – o d’incontro – tra Milano, evidente protagonista di uno sviluppo accelerato che può anche abbandonarla velocemente, e le altre città lombarde.

Sono quindi sensate le profonde domande che Milano si sta facendo: per competere nelle nuove mappe globali è meglio essere città-stato o trovarsi in una regione con più autonomia? È bene continuare umilmente il suo percorso economico, da sola e a testa bassa, o trasformarsi orgogliosamente in una mozione per la gestione economica dell’intero Paese?

I successi altrui ci segnalano però un’altra opzione: i territori vincenti – che raggiungono potere e sviluppo e li conservano – sono quelli compatti, che trasformano la ricchezza prodotta in città in benessere diffuso per le aree vicine, chiamiamole come vogliamo, periferie o anche province. E compattandosi agiscono come un’unica forza. Essere compatti non significa cambiare vocazione: Milano può restare la grande sala riunioni dove le élite vanno a comandare e la finanza si concentra, la grande piazza dove il popolo va a consumare e il retail internazionale sperimenta nuovi format o comincia a penetrare il Paese. Ma va connessa con la frammentata provincia che produce (la manifattura in città è un fake).

Essere compatti significa evitare il diffondersi della “sindrome della festa a cui non siamo stati invitati”, quella sofferta da chi lavora a Milano e vive fuori (e non solo), ma non gode i frutti del suo decantato sviluppo; significa disseminare in provincia la conoscenza acquisita da Milano nel battere i terreni esteri (ci ricordiamo le missioni per vincere la candidatura all’EXPO?), e nell’affrontare la complessità della nuova geografia globale; significa anche avere una provincia meno timida, più orgogliosa e decisa a raccontarsi. In fondo anche la finanza, quando cerca soldi, idee, prodotti e aziende in cui investire, deve alzarsi dalla poltrona della sala riunioni e prendere l’autostrada.

 

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