Cosa resta di Milano, capitale morale

Una volta la chiamavano la Stalingrado d’Italia. Non soltanto perché nelle cattedrali industriali insediate in quella zona a nord di Milano il Partito Comunista e il più forte sindacato italiano, la Cgil, avevano coltivato dal secondo dopoguerra in poi il loro punto di massima forza popolare, ma perché in quell’area era concentrata la gran parte […]

Una volta la chiamavano la Stalingrado d’Italia. Non soltanto perché nelle cattedrali industriali insediate in quella zona a nord di Milano il Partito Comunista e il più forte sindacato italiano, la Cgil, avevano coltivato dal secondo dopoguerra in poi il loro punto di massima forza popolare, ma perché in quell’area era concentrata la gran parte della grande industria e dell’imprenditoria lombarda.

Come avvenne negli anni Trenta nell’Unione Sovietica di Stalin con i piani quinquennali, che portarono a una massiccia industrializzazione, nell’hinterland milanese erano nati spontaneamente e si erano sviluppati come funghi i giganti dell’industria pesante: il cosiddetto polo siderurgico milanese, che aveva permeato di sé non soltanto il territorio circostante, ma l’intera cultura imprenditoriale e popolare del capoluogo.

 

Sesto San Giovanni e gli albori dell’industrializzazione milanese

Parliamo di Sesto San Giovanni, un paese alla periferia di Milano. Un aggregato che prende il suo nome dal fatto che la chiesa di San Giovanni dell’ex borgo agricolo si trova al sesto chilometro dal Duomo. L’insediamento industriale di cui stiamo parlando è lontano nel tempo: risale ai primi del Novecento. Nel 1903 a Sesto nasce la Breda, e dopo due anni sorge l’Ercole Marelli, che precede di un anno la nascita delle Acciaierie Ferriere. Da una anonima società nasce di lì a poco il colosso siderurgico Falk. La Pirelli nasce addirittura nel 1872, e soltanto nel 1906 sposta i suoi stabilimenti nell’area della Bicocca, accanto agli altri dinosauri industriali. La seconda guerra mondiale, distruttiva per altri settori produttivi, rafforza quel polo attraverso l’industria bellica.

Un ruolo decisivo all’espansione di quello che gli storici hanno definito uno dei più grandi aggregati industriali d’Europa lo hanno avuto le ferrovie che collegavano Sesto al Nord Europa attraverso il passo del Gottardo. Ma i veri registi dello sviluppo a macchia d’olio del polo industriale che si è consolidato negli anni Sessanta con il boom economico sono l’Iri, nata durante il fascismo per proteggere l’industria e le banche italiane dai venti gelidi della crisi del 1929, e Mediobanca, saldamente in mano al banchiere dei banchieri, il siciliano Enrico Cuccia – l’uomo che attraverso le tre banche d’interesse nazionale di allora, Credito Italiano, Banca Commerciale e Banca di Roma, ha foraggiato questo impetuoso sviluppo. Lo stesso uomo che negli anni successivi ha salvato dalla crisi degli anni Settanta colossi come Fiat, Pirelli, Orlando, Montedison, Ligresti. Fu in quegli anni che il potere economico allungò i suoi tentacoli anche verso la stampa, come avvenne nel 1984 con l’ingresso di Fiat e Mediobanca nel capitale del più importante quotidiano nazionale, il milanese Corriere della Sera.

Ma torniamo per un attimo alle origini. Come racconta uno storico dell’epoca: “L’area scelta per la Breda si trova fra Sesto San Giovanni e Greco Milanese, che viene acquistata per 5 milioni di lire dalla Società Quartiere Industriale Nord Milano, sottoscritta da Breda e Pirelli, le Ferrovie Meridionali e le banche Pisa, Feltrinelli e Commerciale, i principali attori economici e finanziari dell’Italia settentrionale, che avevano a Milano il loro cuore propulsivo e la solidità e affidabilità finanziaria necessarie a garantire un’operazione immobiliare così vasta, e al riparo da speculazioni negative”.

Ma non c’erano soltanto i colossi della siderurgia, della gomma e dell’auto. L’indotto dei colossi industriali connetteva alla sua rete migliaia di piccole e medie imprese che costituivano il tessuto sociale e produttivo portante della cintura di Milano e della stessa metropoli. Tra Milano e Como, ad esempio, non c’era soluzione di continuità. Il tessuto produttivo milanese si estendeva senza sosta verso il comasco e il lecchese, come se fosse un’unica grande metropoli industriale. In quest’area regionale a Nord di Milano si trovava ad esempio la facoltosa Brianza, regno dell’industria del mobile. Ma era sul centro di gravità industriale che si strutturava il mosaico della città, la sua architettura, le sue gerarchie, le sue infrastrutture, i suoi servizi, il suo tessuto sociale. La stessa grande distribuzione, massicciamente presente a Milano, ha tenuto conto, territorialmente parlando, della presenza dei “dinosauri” dell’industria.

 

La capitale morale, ma senza morale

Se si risale agli anni Trenta, una delle immagini più eloquenti della Milano industriale ci viene regalata da Mario Sironi in molti dei suoi suggestivi dipinti sulle periferie della capitale lombarda. Un critico d’arte scrisse che “le periferie malinconiche di Mario Sironi esprimono l’idea dell’eternità”. Così non è stato. Quella apparente “eternità” sprigionata dai comignoli fumanti o dagli immobili edifici industriali, che davvero sembrano eterni e che Sironi racconta nei suoi dipinti, si è interrotta bruscamente. Quella Milano industriale non esiste più. E con quella metamorfosi muta il tessuto sociale milanese: la classe operaia di Gian Maria Volontè ed Elio Petri non va più in paradiso; mutano i centri di potere come la Mediobanca di Enrico Cuccia, grande protettore del capitalismo familiare italiano; e muta il territorio. Il gigantesco simbolo di Milano, il grattacielo Pirelli, diventa una sede della Regione Lombardia.

Come ha raccontato lo scorso anno Stefano Boeri a Senza Filtro: “Si è trattato di un passaggio epocale di Milano: chiudono le grandi fabbriche e con esse si chiude una storia iniziata nell’Ottocento. In termini sociali l’effetto è prevedibile ma non per questo meno sconvolgente: il processo di deindustrializzazione distrugge la classe operaia e modifica radicalmente la classe dirigente imprenditoriale. La classe operaia si trasforma lentamente in ceto medio basso e le grandi imprese diventano vuoti urbani. Nel frattempo sul piano sociale ed economico il territorio cambia. Diciamo, tanto per dare un’immagine, che la trasformazione della città e dell’hinterland avviene attraverso piccoli movimenti: sorgono i centri commerciali, nascono palazzine di piccole dimensioni che plasmano il territorio in modo individualista. Nasce la città diffusa fatta di sottotetti e sopralzi”.

Le dismissioni industriali a Sesto hanno una prima data di inizio: cominciano nel 1951 con la chiusura della sezione V aeronautica della Breda, ma come una valanga inarrestabile si moltiplicano nella seconda metà degli anni Settanta, quando cessano invece le produzioni della Osva e della Pirelli Sapsa, per poi continuare senza sosta tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, quando progressivamente si ridimensionano e ristrutturano fino alla chiusura (o falliscono) prima Magneti Marelli ed Ercole e poi la Finanziaria Ernesto Breda e le Acciaierie Falck.

Da quel momento le aree dismesse finiscono nelle mani delle grandi immobiliari. È la fine di un’epoca che cambierà per sempre il volto economico, politico e culturale di Milano. La Milano da bere di Bettino Craxi e del dominio dei grandi stilisti, che fanno di Milano la città della moda negli stessi edifici dove una volta c’erano l’Ansaldo e la Campari, si trasforma ancora, cambia pelle; chiude con gli anni di piombo e con i miti della rivoluzione proletaria e fa emergere un modello di sviluppo assai diverso dal passato. E quando nel 1992 scoppia Tangentopoli, Milano perde anche il fiore all’occhiello di capitale morale d’Italia.

 

Da Silvio Berlusconi a oggi

Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, poi, la città diventa il regno incontrastato di un imprenditore brianzolo molto inviso alla vecchia guardia del capitalismo industriale: Silvio Berlusconi. Quando negli anni Ottanta il cavalier Berlusconi cerca di farsi strada tra i santoni del capitalismo familiare, concentrato a Milano tra Mediobanca, la Banca Commerciale e il Corriere della Sera, viene guardato con sospetto. Costruttore, proprietario del gruppo Fininvest, re della pubblicità via etere, editore di tre emittenti private, ideatore di un altro modo di abitare con la costruzione di Milano 2 e Milano 3, Berlusconi non è gradito nel salotto buono del capitalismo italiano.

Ma lui non si arrende, forse perché è consapevole del fatto che la Milano dei Pirelli e di Mediobanca, la Milano dominata da banchieri e grandi imprenditori, è sulla via del tramonto. La sua nomina a Presidente del Consiglio del ‘94 è forse il segno più significativo del cambio d’epoca. Alla cultura industriale imprenditoriale che aveva dominato per decenni la capitale della Lombardia si sostituisce la cultura televisiva di Mediaset. Il motore dell’accumulazione di capitale non è più il lavoro operaio, ma la pubblicità. Insomma, è la fine senza più ritorno di un’epoca durata un centinaio d’anni.

Oggi Milano è un ibrido. La borghesia laica e progressista, rappresentata nelle istituzioni dal sindaco Giuseppe Sala, guida ancora saldamente la città, grazie alla capacità che ha avuto di gestire al meglio l’Expo e alcune importanti aree dismesse, dove ad esempio è sorto il centro direzionale. Ma da più di un anno il sindaco e la giunta di centrosinistra sono circondati dai “barbari”, dall’esercito legista che domina incontrastato i comuni limitrofi e le aree periferiche di Milano. È emblematico il fatto che la ex Stalingrado d’Italia, Sesto San Giovanni, sia governata dai leghisti. Di recente Matteo Salvini ha annunciato che vuole riprendersi Milano. Ma questa è un’altra storia.

 

Photo credits: Alessandra Stefanini @ale_heloise on Instagram

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