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Diverso, straniero o proprio estraneo?
È medico in un ospedale del nord, un lavoro che svolge con passione. È padre e scrittore. Ridendo ci definiamo “gemelli”, perché entrambi da tanti anni ci occupiamo di inclusione. Gemelli un po’ improbabili, perché la mia pelle è bianca, e la sua è nera. Per iniziare questa riflessione ho chiesto a Kossi Komla Ebri, […]
È medico in un ospedale del nord, un lavoro che svolge con passione. È padre e scrittore. Ridendo ci definiamo “gemelli”, perché entrambi da tanti anni ci occupiamo di inclusione. Gemelli un po’ improbabili, perché la mia pelle è bianca, e la sua è nera.
Per iniziare questa riflessione ho chiesto a Kossi Komla Ebri, nato nel Togo ma in Italia dagli anni ’70, se nella sua esperienza si potessero distinguere delle fasi nella sensazione di estraneità che ha provato uno come lui – straniero poi naturalizzato – nel nostro Paese. Ne sono venute fuori tre.
Le tre fasi dell’estraneità
La prima, quella degli anni 70’ in cui ha studiato medicina a Bologna, si potrebbe definire la fase della “curiosità positiva”. Se chiedeva un’indicazione stradale, spesso la persona lo accompagnava per fare domande sul suo paese, il Togo; i compagni di corso lo cercavano; non trovava difficoltà né nella vita quotidiana, né nello studio. Maggiormente esclusi erano i colleghi greci, forse perché non parlavano un italiano corrente, e ai quali le case venivano affittate con ritrosia.
La seconda fase, l’arrivo al Nord e l’inserimento nella professione, negli anni ’80, si potrebbe definire della “diffidenza”. Certo non sarà stato facile, come per tutte le minoranze, legittimarsi professionalmente. C’è voluto un lungo lavoro di crescita personale e professionale, di costruzione di relazioni, di creazione di network. È anche il periodo del matrimonio con un’italiana, della nascita dei figli. Insomma, una fatica tutto sommato positiva.
È la terza fase, quella attuale, la peggiore: “Dopo gli anni ’90 – sostiene Kossi – ho iniziato a sentirmi straniero”. Potremmo quindi definire questo ultimo periodo quello dell’estraneità. Ora si sente un osservato speciale. Se sale su un treno, se entra in un supermercato, gli sguardi non sono benevoli; molti sono decisamente ostili.
Quindi, la propensione sociale all’inclusione delle persone di altre nazionalità, soprattutto se hanno un colore della pelle diverso, è decisamente peggiorata negli anni. È interessante notare che, secondo la sua esperienza, dopo i greci degli anni ‘70, una sostanziale avversità l’hanno avvertita prima gli albanesi e poi i rumeni. Un’ostilità che diminuisce, nel tempo, con l’integrazione linguistica, “ma noi africani”, dice Kossi, “rimaniamo sempre diversamente visibili”. Oggi che gli mancano pochi anni alla pensione ogni tanto pensa di tornare al suo paese, non solo per un periodo di riposo, ma anche per diventare uno tra i tanti. Invisibile, appunto.
L’estraneità in azienda
Le fasi delineate non hanno una pretesa scientifica. Non emergono da ricerche: sono un punto di vista molto importante, perché da anni l’osservatore da un lato sperimenta queste dinamiche, dall’altro le rilegge con ricercatori e studiosi.
Il mio punto di vista deriva invece dalle realtà aziendali con le quali, dal 2000 a oggi, ho intrapreso percorsi di consulenza e formazione sull’inclusione della diversità. Un tema che, nei primi anni, è stato sollecitato dal nostro paese da multinazionali americane e nordeuropee. I partner più significativi, nei primi anni, sono stati aziende come IBM, Ikea e Microsoft, solo per citare quelle con cui abbiamo percorso più tratti di strada.
Una prima osservazione generale riguardo al tema dell’inclusione nell’universo aziendale: se dovessi anche io tracciare delle fasi, direi che per fortuna sono opposte a quelle di Kossi. Si parte da un’iniziale “tolleranza”, (“è un tema di moda di cui è necessario occuparsi”), seguito da una seconda fase di “interesse attivo” (“l’argomento potrebbe essere importante, cerchiamo di approfondirlo”), fino a una “convinzione costruttiva” (“è uno dei nodi dell’innovazione e dello sviluppo del futuro”).
Non tutte le realtà aziendali hanno compiuto questo percorso, ma dagli anni 2000, quando pochi pensavano a queste tematiche con interesse, l’attenzione è oggi molto più estesa, anche se molti sono ancora nella fase che abbiamo definito di “tolleranza”. È un itinerario, appunto, che però si spiega come una precisa tendenza.
Progetti di appianamento delle differenze
Se a questa considerazione di fondo circa l’interesse per la materia aggiungiamo una riflessione sui temi più trattati, sicuramente il genere è quello che sempre ottenuto un interesse prevalente ed è ancora il punto di partenza di programmi che poi si spingono in altre direzioni. Un secondo tema che sta incontrando una “convinzione costruttiva” è quello dell’età e delle generazioni. La rivoluzione demografica che il nostro paese sta vivendo, essendo contemporaneamente uno dei più longevi e con una bassa natalità, inizia a essere un elemento di consapevolezza nel management. I programmi in questa direzione vanno dal supporto ai senior nella gestione di una vita lavorativa aumentata a progetti di ponti intergenerazionali, e soprattutto al cercare di conoscere e capire questa Generazione Y, decisamente differente rispetto alle precedenti.
Bisogna ammetterlo, nel campo delle culture i progetti sono pochi. È un tema che spesso viene trattato con un corso online di “sensibilizzazione” proposto in modo uniforme, oppure con modelli interpretativi molto teorici, con poche possibilità di applicazioni concrete.
In realtà il tema è difficile in sé: se da un lato le differenze culturali sono sotto gli occhi di tutti, dall’altro lato le modalità con cui si estrinsecano nel contesto lavorativo sono molto diverse. Per fare qualche esempio, ci sono team – reali o virtuali – composti da persone provenienti da diversi paesi, oppure ci sono individui di differente cultura che entrano in un contesto omogeneo, o espatriati che raggiungono un paese completamente estraneo. Gli intrecci che derivano da queste differenti situazioni – e dalle molte altre che se ne possono aggiungere – richiedono competenze diverse di adattamento e di inclusione. Una giustificazione per la scarsa attenzione al tema, quindi, deriva anche dalla difficoltà oggettiva a definirne gli obiettivi, al di là di una generica consapevolezza.
I progetti di successo che negli anni ho condotto riguardano situazioni differenti accumunate da una metodologia: partire dal concreto per verificare quali siano le situazioni di incomprensione e potenziale conflitto. Di grande interesse una realtà produttiva, in provincia di Bergamo, in cui abbiamo avuto in aula 11 nazionalità; questo senza tenere conto delle diversità provinciali italiane, che da sole possono costituire un interessante osservatorio cross-culturale. Partendo dal concreto è poi possibile narrare le proprie storie, mettere in luce le radici delle differenze e trovare in modo propositivo degli ambiti di incontro.
Il viaggio e il confronto
La diffidenza nasce in primo luogo dall’assenza di dialogo: è sempre strabiliante come le differenze si attenuino semplicemente con la conoscenza personale, con la capacità di ascolto. Una recente ricerca dell’Istituto Toniolo mette in luce, tra le altre cose, come i giovani dimostrino una maggiore apertura agli stranieri, visti anche come una risorsa e non solo come un problema. La cosa non sorprende, visto che proprio questi giovani sempre più spesso parlano correntemente una lingua straniera, sanno muoversi nelle realtà virtuali con connessioni estese nel mondo, viaggiano e si confrontano con molte diversità.
Sono i viaggi che consentono di capire le differenze; non solo quelle degli altri, ma soprattutto le nostre. E per viaggio non si intende esclusivamente quello fisico, in cui si prende un aereo, ci si immerge in un’altra realtà, si collezionano immagini ed emozioni. Ci sono viaggi che sono soprattutto occasioni di conoscenza, di incontro, di comprensione.
Una recente trasmissione RAI di storia raccontava la migrazione italiana in Svizzera, paese adiacente all’Italia, nell’immediato dopoguerra: un viaggio in un’altra epoca, che sembra così lontana, ma che in realtà non lo è affatto. Un ricordo di situazioni terribili: venivano accettate solo le persone adatte a lavorare, disgregando le famiglie; i bambini spesso erano “clandestini” e dovevano stare in casa senza farsi notare; se identificati erano portati al confine, dove sorsero istituti per la loro accoglienza, visitati dai genitori solo la domenica. Storie dimenticate, ma che è opportuno ricordare per capire che c’è sempre un “diverso”, un fastidio e un confine.
Conoscere non vuol dire accettare integralmente i valori dell’altro, ma è solo attraverso la conoscenza che si può aprire una discussione costruttiva che costruisca ponti, e non muri. Personalmente credo che il tema delle culture sarà centrale per il management del futuro, che già oggi – purtroppo con molte improvvisazioni – muove i primi passi in diverse parti del mondo.
Photo by NordWood Themes via unsplash.com
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