E se gli scambisti si trasferissero in azienda?

Che siano necessarie emozioni forti, ora nelle vesti di improvvisati atleti ora in quelle di futuri astronauti, per diventare o continuare ad essere un buon manager è un concetto ormai universalmente sdoganato nel mondo aziendale al punto da essere quasi superato. Negli ultimi tre lustri nel grande generico contenitore della formazione esperienziale o outdoor training […]

Che siano necessarie emozioni forti, ora nelle vesti di improvvisati atleti ora in quelle di futuri astronauti, per diventare o continuare ad essere un buon manager è un concetto ormai universalmente sdoganato nel mondo aziendale al punto da essere quasi superato.

Negli ultimi tre lustri nel grande generico contenitore della formazione esperienziale o outdoor training hanno infatti trovato spazio tutte le più interessanti ed ardite metafore della vita aziendale: barca a vela, rugby, canyoning, rafting, climbing, orienteering ed ogni altra specialità purché rigorosamente terminante in –ing e che si svolgesse in acqua, aria o terra, sebbene con buona pace di Anassimene il fuoco sinora siamo riusciti ad evitarlo.

Con la stessa logica, anche le finalità sono cresciute esponenzialmente e agli obiettivi di team building, sviluppo della leadership, si è ora affiancata anche la gestione dello stress da lavoro per la quale recentemente è stata organizzata da Soges – una società torinese attiva nella fornitura di soluzioni e servizi per la formazione e gestione delle Risorse Umane – e Pietro Trabucchi nell’ambito dell’Alaska Stress Challenge, una spedizione scientifica che si propone l’obiettivo di dimostrare come attraverso l’allenamento si possa imparare a gestire efficacemente lo stress, il nemico pubblico numero uno di ogni ruolo di responsabilità.

A questo esperimento, che consiste in una vera e propria prova di sopravvivenza sulle Alpi, prenderanno parte otto top manager di importanti multinazionali che si sono offerti volontari.
Dopo aver rimosso dalla mia testa l’immagine fantozziana dei dipendenti che organizzano giganteschi rosarioni di gruppo in sala mensa ho fatto alcune considerazioni.

Non ho il minimo dubbio che i sopravvissuti a questa esperienza estrema saranno in grado in futuro di gestire, con la saggezza degli antichi filosofi e la perseveranza dei grandi santi, molti dei problemi insiti nella funzione di comando: dalle decisioni impopolari, ma così frequentemente necessarie di questi tempi quali la riduzione del personale, all’adozione di misure atte a supportare il downsizing (pur cresciuti nella culla della lingua riusciamo a farci addolcire un concetto crudo come i tagli da un bel termine in technical english), sino al rischio di vedersi recapitare un avviso di garanzia per non avere sufficientemente tutelato la salute fisica o psichica dei propri dipendenti.

In cuor mio spero che l’esperimento funzioni e che, nel giro di qualche mese, potremo tutti partire per la selezione naturale alpina e tornare illuminati, emotivamente immuni da emozioni e stress.
Da inguaribile ottimista spero anche che i manager siano sempre così coerenti da provare in prima persona quanto poi vorranno somministrare ai loro collaboratori. D’altro canto mi auguro che i dipendenti, spesso alla ricerca di una gestione manageriale più fresca e meno ingessata, non siano poi i primi ad etichettare queste attività come spreco di soldi aziendali che certo sarebbero stati meglio spesi elargendo aumenti di stipendi, o premi o, peggio ancora, definendole giornate di vacanza specie quando non ne sono destinatari in prima persona.

Certo, ci saranno sempre i volontari di mestiere, gli entusiasti, quelli che per far carriera attraverserebbero a nuoto un oceano, quelli che apprezzano le idee e quelli che sanno cogliere il meglio da ogni opportunità ma fanno sempre meno “rumore” del pessimista professionista.
Ricordo ancora nei primi anni di lavoro, in una grande multinazionale, la rivisitazione del concetto di ricorso al TAR (Turismo Aziendale Retribuito) attribuita a chi viaggiava spesso per lavoro, emblematica del pensiero comune che viaggiare sia comunque un piacere, anche se per lavoro.

Io credo sia giunto il momento di imparare qualcosa da tutto questo e seguire la moda del momento diventando tutti swingers aziendali. Perché quante volte ci è capitato di sentirsi dire ” Ci verrei io di corsa al posto suo, col suo stipendio”. Bene, facciamolo pure questo scambio una buona volta. Durerebbe un mese, forse due, o anche sei mesi, per farsi un’idea chiara di cosa significhi.

Ma, oltre allo stipendio, aderiamo al pacchetto completo: cominciamo assegnando un cellulare aziendale che resterà naturalmente sempre acceso, notte e week end inclusi, con buona pace della famiglia e della gestione del tempo libero. Un po’ di rischi, lettere anonime, preoccupazioni notturne, responsabilità penali dei datori di lavoro, qualche pillolina per dormire ed il cocktail è servito, sempre sperando che le cose vadano bene altrimenti con qualche mensilità si è a spasso, con buona pace dell’art 18.

Non so perché ma ho la sensazione che dopo poco tempo molti convocherebbero il manager scambista nel loro ufficio per dirgli: “Dotto’ aveva ragione lei. Se lo tenga il suo posto che io alla fine sono felice così”.

 

CONDIVIDI

Leggi anche

Caporalato, la finta ignoranza di chi lo asseconda

Imprenditori che in virtù della logica del mero profitto accettano, più o meno consapevolmente, di allearsi con chi persegue strategie produttive ed industriali selvagge. In Italia esiste una filiera produttiva che sfrutta la manodopera rurale come merce di scambio per connivenze poco chiare. Braccianti, italiani e stranieri, stagionali e non, sfruttati e malpagati, che si dedicano al lavoro nei […]