Enrico Bertolino, Dr. Jekyll cabarettista e Mr. Hyde formatore

Non è mai facile intervistare un comico. Il rischio è che l’articolo sia forzatamente spiritoso o inaspettatamente noioso. Con Enrico Bertolino questo rischio però non c’è. Siamo andati a cercarlo poiché il grande pubblico ignora che il comico milanese sia al tempo stesso anche un formatore, ma di quelli veri, chiamato non per strappare risate […]

Non è mai facile intervistare un comico. Il rischio è che l’articolo sia forzatamente spiritoso o inaspettatamente noioso. Con Enrico Bertolino questo rischio però non c’è. Siamo andati a cercarlo poiché il grande pubblico ignora che il comico milanese sia al tempo stesso anche un formatore, ma di quelli veri, chiamato non per strappare risate a qualche (altrimenti) moscia convention. Bertolino, infatti, prima di fare il cabarettista è stato consulente d’azienda e prima ancora ha lavorato per due anni in finanza per la Standard Chartered Bank e a Londra per la Hong Kong Bank.

 

Che tipo di bancario eri, da sportello o da bonus?
Entrambi. Mi occupavo di tutto: la cassa, le segnalazioni all’ufficio cambi, import, export, le estero-Lire, ero multitasking. Mi proposero persino un master sui derivati e anche sui cereali alla Borsa di Chicago!

Ricordi di quel mondo? Erano i tempi d’oro della finanza…
Sono stato un privilegiato, ho incontrato persone fantastiche con alcune delle quali sono ancora rimasto in contatto. Un’esperienza molto positiva. Si, erano tempi d’oro, gli anni in cui a Natale le banche invitavano te e i tuoi parenti fino al terzo grado a cena da Giannino [ndr: uno dei più noti ristoranti di Milano] salvo poi che, quando le vacche grasse finirono, quelle cene ci ritrovammo a farle in bettole di periferia.

Passiamo al capitolo: “Ho visto cose che voi umani…”
Era il 1992, Londra, facevo l’assistente di un tizio che si occupava di Venture Capital, investiva danaro in attività promettenti ma rischiose. Un giorno mi portò nel quartiere di Soho, in un garage pieno di grandi computer, schede di memoria, pacchi, ricordo un gran casino. Lì c’erano due giovani, uno era asiatico. Ci accompagnarono in un posto angusto confinante col garage e i tre cominciarono a parlare: non capivo molto, il mio inglese era scolastico e loro parlavano molto velocemente, serrati. Alla fine il mio capo uscì soddisfatto, ricordo che disse: “E’ un buon business, è una cosa legata alla condivisione della conoscenza; vedi, in questi affari devi sempre vedere la consistenza. E’ un buon business”. Visto il posto, io a quei due non gli avrei dato un soldo.

Ma chi erano quei tizi?
L’asiatico con tutta probabilità era Jerry Yang, uno dei due fondatori di Yahoo!

Di fronte alle banche che scricchiolano qual è il tuo atteggiamento: “si sapeva che sarebbe finita così” oppure “nessuno lo immaginava”?
Direi a metà strada: si sapeva e si doveva immaginare. La componente dei rischio era palese. Io stesso, come dicevo prima, sono stato a contatto con i derivati in tempi in cui erano sconosciuti al grande pubblico. Torno ai ricordi del periodo londinese, quando facevo uno stage all’ufficio cambi come junior dealer (insomma cambiavo la carta del Telex). Un giorno il capo-cambista mi prese da parte e mi disse: “Qua è tutto un gamble, una scommessa, sta a noi fare gli utili: play the game!” Lì capii che giocavano con i soldi della gente, non con quelli delle banche. In Italia per fortuna si facevano le coperture e non si agiva così ma poi qualcosa è cambiato e mi riferisco a Montepaschi: lì c’è stato qualcosa di scellerato. Hanno fatto come la TV pubblica che rincorre il trash delle TV private. Io sono ancora convinto che le banche abbiano un ruolo sociale sennò si finisce in mano agli usurai.

Quando è finita la tua carriera da bancario?
Ad un certo punto per una serie di vendite e di scambi azionari mi dissero che sarei dovuto passare alla Banca Popolare Vicentina: insomma da Chicago ad Arzignano. Dissi di no. Fu allora che incontrai una persona che faceva formazione manageriale e public speaking in Danimarca per una società che si chiamava Time Management International, quella dell’agenda per la pianificazione personale. Mi dimisi. Mi madre ci rimase malissimo e a mio padre non ebbi il coraggio di dirlo, gli inventai che avevo preso l’aspettativa. Perdere un posto in banca era come perdere un figlio al fronte. Andai a fare il formatore proprio in quella società danese nella quale due anni dopo divenni dirigente: mi occupavo di leadership e quality service, parliamo degli anni dal 1992 al 1997. Parallelamente cominciai a fare il comico per hobby, prima come “scaldapubblico”, ossia esibendomi 10 minuti prima delle performance dei big alla Cà Bianca a Milano; poi mi chiesero di fare cabaret il fine settimana. Quei sei anni di gavetta sono stati divertentissimi, usavo le mie ferie per gli spettacoli e ci ho rimesso più di una fidanzata: sai, all’inizio è figo stare con un comico ma poi quando scopri che tutti i week end lavora…Dal ’97 in avanti arrivarono i concorsi di cabaret, l’incontro con Maurizio Costanzo, la TV con Ciro il figlio di Target, il teatro.

Torniamo alla formazione: qual è il confine tra il contenuto vero e la fuffa?
La fuffa è iniziata quando le aziende avevano tanti soldi da spendere, budget consistenti da far fuori entro il 31 dicembre: erano gli anni dei carboni ardenti, del “credi in te stesso”. Finiti i budget stellari, quel tipo di formatori tornavano all’assalto ma rimbalzavano. Ora che c’è crisi, nel mio settore molti comici si rivendono come formatori ma non capiscono che questa attività non si può fare con i tormentoni, ci vogliono i contenuti sennò ti ritrovi a vendere Coca Cola calda e sgasata. Certo, magari poi faccio anche il cabaret nelle serate aziendali ma non prima di aver fatto formazione per i dipendenti. Poi alla fine quello che conta, la cartina tornasole, è la soddisfazione del cliente. Per quello che mi riguarda mi considero un portatore sano di edu-tainment, offro dei messaggi motivazionali costruttivi, contenuti complessi, non mi propongo per coaching e nemmeno per assesment anche se so farlo. Spesso mi chiamano in caso di fusioni o incorporazioni per motivare i collaboratori sia dell’acquistato che dall’acquirente e per favorire un’integrazione più rapida tra diversi stili aziendali.

Anche quando ci sono licenziamenti di mezzo – pardon, mobilità?
No, sulla mobilità no. Sarebbe come fare un corso per i tacchini prima del giorno del Ringraziamento.

Visto che siamo in zona, hai un lato cattivo?
Mi dicono che a volte assomiglio a Raimondo Vianello e lo considero un complimento perché lui era un vero cinico. Anche nella formazione a volte sono cinico: al contrario dei consulenti io mi posso permettere nei miei interventi di dire cose scomode con la comicità. Se mi chiedono in un intervento di citare ricerche di mercato pagate per parlar bene dell’azienda non lo faccio. A volte mi sussurrano di non citare nei miei interventi il Presidente o l’Amministratore delegato: ma io – rispondo – evidenzio solo i vostri errori, mica sono qua a prendervi per il culo!

 

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