Frontalieri in Svizzera o extracomunitari d’Italia?

È una vera invasione. Più di 58.000 persone scavalcano la frontiera, ogni mattina. Gli invasori sono di solito pacifici; a parte i moccoli di chi è imbufalito per le code che si creano già all’alba lungo le strade, visto che per percorrere al massimo una trentina di chilometri si impiega più di un’ora. Ogni sera, […]

È una vera invasione. Più di 58.000 persone scavalcano la frontiera, ogni mattina. Gli invasori sono di solito pacifici; a parte i moccoli di chi è imbufalito per le code che si creano già all’alba lungo le strade, visto che per percorrere al massimo una trentina di chilometri si impiega più di un’ora. Ogni sera, le stesse truppe motorizzate fanno lentamente ritorno verso casa, oltre il “ramino”: è il soprannome della linea di confine tra Lombardia e Canton Ticino, in Svizzera.

Questa è la sceneggiatura della quotidiana migrazione dei frontalieri, cioè i lombardi delle province di Varese (circa la metà), Como, Lecco diretti verso il Ticino, e quelli della provincia di Sondrio all’assalto dei Grigioni. Chi è un frontaliero? In parole povere un pendolare, però tra un Paese e l’altro. Ufficialmente la qualifica, stabilita da una convenzione bilaterale che risale al 1974, spetta ai lavoratori residenti in un comune con il territorio compreso, in tutto o in parte, nella fascia di 20 km dalla frontiera con tre cantoni: Ticino (confinante con Varesotto, Comasco e un pezzo di Piemonte), Grigioni, tra Valtellina e Alto Adige, e Vallese, al di là della frontiera piemontese e valdostana.

 

La “pacchia” dei frontalieri: sfruttati in Svizzera, invidiati in Italia

I numeri dell’esodo e del controesodo, in grande maggioranza lombardo, sono imponenti, soprattutto considerando che gli svizzeri ticinesi sono soltanto 255.000. Il risultato? Basta un esempio: a Manno, paese nei dintorni di Lugano, i residenti sono 1.200, però ci lavorano oltre 1.800 nostri compatrioti che vanno e vengono. Tutta gente che ha stipendi molto più alti di quelli italiani medi, a parità di mansioni. Oltretutto, quei salari garantiscono introiti fiscali interessanti ai comuni di residenza e alle relative province: il tesoro versato ogni anno dalla Svizzera, secondo gli ultimi dati del 2018, vale oltre 73 milioni di euro di entrate dirette per i municipi della Lombardia lungo la frontiera, più 13,87 milioni per quattro province (soprattutto quella di Varese, 7,8, e quella di Como, 5,8).

Intanto l’economia del Ticino, secondo uno studio di sei banche della Svizzera romanda, va a gonfie vele anche grazie ai frontalieri italiani, aumentati dai 31.000 del 2001 al doppio di oggi: cosicché in quindici anni, dal 2002 al 2017, mentre il resto del mondo era colpito da una crisi micidiale, il Pil del Ticino è aumentato del 30,4% e nel 2018 ha avuto un incremento di un altro punto.

Quindi è una pacchia, come direbbe il nostro monocorde vicepremier Matteo Salvini? Dipende dai punti di vista. I frontalieri denunciano stipendi sempre più bassi: da 300 fino a 1.300 euro in meno rispetto agli svizzeri per il medesimo impiego, mentre molti svizzeri sostengono che proprio gli stipendi inferiori accettati dagli italiani escludono molti loro connazionali dal mercato del lavoro. Perché uno stipendio mensile svizzero “molto basso”, intorno ai 4000 franchi (3.500 euro) netti al mese, nel Canton Ticino basta appena per campare, visto che il costo della vita è del 30% più alto rispetto a Milano e del 50% rispetto a Palermo; inoltre l’assistenza sanitaria è a pagamento e molto cara. Si verificano quindi fenomeni che noi italiani, al di qua del confine, facciamo fatica a comprendere. Per esempio, i frontalieri più arrabbiati sono quelli con salari nella fascia dei 5.300 franchi svizzeri mensili, normali da quelle parti. Stiamo parlando di 4.676 euro al mese. I nostri connazionali non digeriscono il fatto di essere “costretti” a beccarne “solo” 4.300 (3.800 euro). Eppure, in Italia, si tratta di un introito che farebbe gola a quasi tutti.

 

Ristorni sì, ristorni no. Una questione di milioni

Certo, anche la Confederazione ha i suoi leghisti, che – come da copione – grazie all’odio nei confronti dello “straniero invasore” vivono di rendita. La Lega dei Ticinesi, e anche l’Udc, da anni sbraitano il noto slogan internazionalePrima i nostri!”. Eppure il Canton Ticino senza lavoratori tricolori finirebbe nel caos: il 50,7% degli occupati (dati 2017) non è svizzero e metà di questi sono frontalieri italiani, che scalpitano perché si sentono discriminati e sfruttati. Cosicché le proteste non mancano.

Che cosa possiamo aspettarci nei prossimi tempi? “Non è chiaro. So che nel sistema produttivo ticinese qualcosa non va per il verso giusto. Da una parte diminuisce il numero di frontalieri (scesi di 2.700 unità nell’ultimo anno, N.d.R.), dall’altro aumentano gli svizzeri che ricorrono all’assistenza sociale. Non si capisce per quale motivo”, risponde a Senza Filtro Sydney Rampani, comasco di San Nazzaro di Val Cavargna, paesino italiano di montagna lungo il confine alpino. Rampani, tecnico esperto in fibre ottiche, padre di due bimbi e assunto a Lugano, è amministratore del gruppo Facebook “Frontalieri Insubria” e di quello “Frontalieri Ticino-Como”, con oltre 4.000 iscritti. Insomma, la sa lunga. Aggiunge: “Ci vogliono costringere ad andare via? Lo facciano. Però poi la loro economia si fermerebbe. Servirebbero solo un po’ di buon senso e di buona volontà tra le parti in causa. Oggi dobbiamo costruire ponti, non buttarli giù. Siamo tutti interdipendenti”.

Questi temi, tuttavia, il 14 gennaio sono stati trascurati nel corso di un incontro a Lugano tra il nostro Ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, e il suo collega svizzero, il consigliere federale Ignazio Cassis, capo del Dipartimento degli Affari Esteri. Perché si addensano nubi burrascose. Al centro della disputa c’è il fatto che la Svizzera ritiene superato l’accordo di 45 anni fa sui ristorni fiscali, mentre l’Italia ha oggi un altro parere.

Che cosa sono i ristorni? Dunque: per ora i frontalieri residenti nella fascia di 20 km dal confine sono tassati alla fonte esclusivamente dalla Confederazione, che dopo gira il 38,8% del gettito all’Italia. Una parte cospicua arriva ai comuni e alle province italiane di frontiera: si tratta dei milioni citati a inizio articolo. Il governo pentaleghista vorrebbe lasciare tutto così com’è, in seguito a una mozione presentata da due parlamentari grillini, Giovanni Currò e Niccolò Invidia, che hanno denunciato la penalizzazione dei nostri lavoratori. Così il nuovo accordo sulla fiscalità dei frontalieri, destinato a sostituire l’intesa del 1974, non dovrebbe essere firmato da Roma; perlomeno non nella forma concordata nel dicembre del 2015 da due delegazioni di tecnici italiani e svizzeri, dopo l’intesa fiscale sottoscritta a Milano il precedente 23 febbraio dal Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e da quella delle Finanze Eveline Widmer-Schlumpf.

Indubbiamente tra i vincitori, almeno a breve-medio termine, ci sono i frontalieri residenti entro i famosi 20 km, che vedono allontanarsi lo spettro di un aggravio delle imposte. Questa categoria continua a godere del privilegio di essere tassata in Svizzera. Non solo: dal punto di vista strettamente fiscale la situazione più favorevole, rispetto ad altri pendolari con la Svizzera da altri Paesi europei confinanti, è proprio quella degli italiani, mentre con il nuovo regime la quota versata all’erario cantonale sarebbe solo un credito d’imposta per il fisco tricolore, che ha aliquote molto più onerose. Per capirci, un reddito che in Italia è tassato per più del 40%, in Svizzera paga solo il 20%. Questa soluzione piace a molti ticinesi, perché il Cantone non verserebbe più all’Italia almeno 84 milioni di franchi l’anno; inoltre i frontalieri sarebbero scoraggiati ad andare nel Ticino. Dispiace assai ai pendolari italiani, che si vedrebbero decurtare gli stipendi di un quarto – come succede già a quelli oltre i famosi 20 km – dal nostro fisco, cui arriverebbero svariate decine di milioni in più rispetto a oggi.

 

I frontalieri italiani contro i leghisti elvetici

Fatto sta che l’ultimo incontro luganese tra i due ministri degli Esteri è stato interlocutorio e privo di risultati. Così ora nella Confederazione c’è chi vorrebbe disdire unilateralmente i vecchi patti, a quattro anni dalla firma della nuova intesa, mai approvata definitivamente dal governo italiano. Col risultato che i frontalieri potrebbero essere costretti a una doppia imposizione fiscale, in Svizzera e anche in Italia, alla faccia del ristorno.

Il ticinese Lorenzo Quadri, consigliere nazionale leghista, è andato giù duro: “Il lungo tira-e-molla ha ormai stancato. Le nuove maggioranze politiche italiane appaiono ancora più intenzionate a tutelare i privilegi fiscali dei frontalieri, per quanto siano ingiustificati; in prima linea nei confronti dei cittadini italiani che lavorano in patria”. Gli ha fatto eco il presidente del Consiglio di Stato ticinese Claudio Zali, sempre della Lega dei Ticinesi, che il 21 gennaio ha affermato: “È tempo di disdire l’accordo sui frontalieri. Ogni anno ritorniamo una grande quota di ristorni che non vi è più motivo di versare, visto che le condizioni date nel 1974 sono completamente cambiate”.

A Zali ha risposto per le rime il presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi (Forza Italia): “L’accordo non si tocca”, e le dichiarazioni di Zali “appaiono assolutamente strumentali”. Insomma, come se non bastassero le liti tra Italia e Francia, si rischia di entrare in conflitto anche con la Svizzera. In mezzo ci sono i nostri lavoratori frontalieri, tra stipendi decurtati e doppie tasse in agguato. Questo spiega anche il motivo per cui il loro numero sta calando, a prescindere dagli accordi tra i due Stati.

 

Al di là del fisco, i nuovi disagi dei frontalieri

Per non parlare di altri tipi di disagi, nonostante gli stipendi. Una lettera scritta al quotidiano La Provincia di Varese da una lettrice, Tiziana Giganti di Malnate, la dice lunga: “Partiamo dalla mia colpa: sono frontaliera. Qual è l’aspetto positivo di tutto ciò? Semplice: guadagno più di una full time italiana, lavorando quattro giorni a settimana. Ma proviamo per un attimo ad analizzare i miei 25 anni da frontaliera. (…) Ad esempio: quando esco la mattina, ci metto un’ora e mezza per fare 25 km che mi separano da Lugano e idem la sera per tornare a casa. (…) Quando mi sono rotta il menisco sul posto di lavoro ho dovuto farmi operare in una clinica svizzera per poter rientrare al più presto e non essere licenziata, contribuendo di tasca mia alle spese mediche. Mi è anche capitato di avere un mancamento e di risvegliarmi al pronto soccorso di Lugano, dove ho ricevuto tutte le cure del caso. Dopo un mese, per un chilometro di ambulanza e un’ora di pronto soccorso, ho pagato una fattura di 1500 franchi”.

Tutto qua? Macché. “Quello che in Italia non mi sarebbe mai accaduto è di essere licenziata il giorno del rientro al lavoro dopo aver partorito i miei due bambini ed essere rientrata dopo tre mesi dal parto. Inoltre quando sono al lavoro, e questa sensazione la percepisco soprattutto negli ultimi 2-3 anni, mi sento come una extracomunitaria e devo correre il doppio delle mie colleghe svizzere perché io sono italiana e devo continuamente dimostrare di valere i soldi che mi danno”. Insomma, non mica è detto che il giardino del vicino sia sempre quello più verde.

 

foto di copertina: http://www.italianosveglia.com/svizzera_italiana_offerte_di_lavoroecco_le_citta_dove_trasferirsi-b-97061.html

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