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Bologna è ancora Basket City?
Di quel tiro a canestro fuori da ogni logica, una giocata tipicamente serba, che assegnò alla Virtus lo scudetto del basket del 1998, se ne parla ancora nei bar di Piazza Azzarita. Era l’epoca in cui Bologna era Basket City, con due squadre ai vertici europei. Per la cronaca, quel “tiro da 4” lo infilò […]
Di quel tiro a canestro fuori da ogni logica, una giocata tipicamente serba, che assegnò alla Virtus lo scudetto del basket del 1998, se ne parla ancora nei bar di Piazza Azzarita. Era l’epoca in cui Bologna era Basket City, con due squadre ai vertici europei.
Per la cronaca, quel “tiro da 4” lo infilò Sasha Danilovic, campione serbo all’epoca ventottenne. Un colpo che non esiste nel basket, ma di tanto era sotto la Virtus quando Danilovic si alzò dai sette metri, sull’arco, a 16 secondi dalla fine. Tiro e fallo. Tre più uno e supplementari che consacrarono le Vu come campioni. Probabilmente la giocata del serbo resta il picco emotivamente più alto del basket bolognese. L’orgoglio dei tifosi della Virtus, l’onta da vendicare – ovviamente si parla ancora dell’arbitro che assegnò quel tiro libero – per i tifosi della Fortitudo.
Virtus e Fortitudo, i due cuori a canestro di Bologna
Alla fine degli anni Novanta Virtus e Fortitudo erano due tra le squadre più forti d’Europa. Alfredo Cazzola, patron della Virtus, aveva richiamato Ettore Messina dalla Nazionale e Sasha Danilovic dalla Nba, e aggiunto assi come Sconochini e Savic, Abbio e Frosini, Rigaudeau e Nesterovic. Giorgio Seragnoli, magnate della Fortitudo, aveva affidato a Valerio Bianchini (poi rilevato da Petar Skansi), Dominique Wilkins, uomo da ventimila punti nella Nba, e David Rivers; poi Myers – forse uno dei simboli di Basket City – e Fucka, Galanda e Chiacig, Attruia e Moretti.
Le duellanti si erano già affrontate in Eurolega: in un derby “senza un domani”, con contorno di polemiche e risse, la Virtus aveva eliminato la Fortitudo ed era volata a Barcellona a vincere la sua prima Coppa dei Campioni del Basket. Si giocava al palasport di Casalecchio di Reno, lontano dalla città. La dimensione delle due squadre non era più quella del PalaDozza, i parcheggi non bastavano più: serviva una casa più “internazionale”, un’arena al posto di un palazzetto. Tanti sono gli aneddoti su quella notte di maggio: quelli che dovevano piombare giù dal sottotetto, con filo d’acciaio e carrucola a consegnare a Myers e soci lo scudetto al suono delle campane di Monghidoro. Quelli che uscirono prima, andarono a casa delusi e lo seppero dai telegiornali, di avere vinto. Quelli che in motorino partirono a razzo per i caroselli, ma in Piazza Maggiore ci trovarono la festa degli altri. Emozioni che solo il basket sa dare, e che a Bologna decantano meglio che in altre città.
Perché per una tifoseria che conosce benissimo la vittoria, quella della Virtus, ce n’è una che della sconfitta e del dolore ne ha fatto un vanto – oltre che un instant book – perché l’amore per la Fortitudo è sconfinato, e va oltre qualunque delusione. Non per niente la fossa dei leoni, tifoseria dei biancoblu della F, è sempre presente, anche adesso che la squadra è in Lega 2 – ancora per poco, vista la classifica.
Per raccontare come Bologna vive questa rivalità ci sono due modi. Il primo è entrare in uno dei bar tra via Graziano e via Nannetti, ordinare un caffè e ascoltare uno dei tanti aneddoti dei tifosi. Quelli che ancora si lamentano di una decisione arbitrale di vent’anni fa, quelli che aspettano il prossimo derby, o quelli che aspettano il ritorno del Messia che è andato a fare fortuna in America. Un Messia che di nome fa Ettore Messina. Quella del basket bolognese è una storia fatta di archetipi, di viaggi dell’eroe e di ritorni. Ognuno ha i suoi sogni: il ritorno del coach per i tifosi della Virtus, quello di Marco Belinelli per i tifosi della Fortitudo.
La seconda opzione è chiamare chi la storia del basket qui l’ha fatta, iniziando la sua carriera nella Fortitudo come viceallenatore di McMillen e passando alla Virtus qualche anno dopo come assistant coach di Nikolic. Oggi, dopo una lunga carriera da coach (è stato anche assistente di Messina in nazionale), Stefano Michelini commenta regolarmente i principali eventi cestistici in onda su Rai Sport.
Io ho scelto entrambe le strade, ed è stato come fare una passeggiata da via Castiglione ai Giardini Margherita, tra playground e osterie, passando per la Sala Borsa, dove per un decennio si sono giocate le stracittadine del secondo dopoguerra. Protagoniste di quelle sfide, oltre la Virtus, vincitrice di quattro scudetti consecutivi tra il ‘46 e il ‘49, la OARE, la Moto Morini e il mitico Gira, terza squadra di Bologna.
Gli anni d’oro della Basket City bolognese
“Se i bolognesi coi capelli grigi ancora oggi – cito il sito di bibliotecasalaborsa – sospirano varcando la soglia della Sala Borsa e istintivamente sollevano gli occhi verso le due estremità della sala rettangolare, non è in ricordo delle contrattazioni di un avo, del conto corrente del padre o dei tortellini che mani pietose offrivano a poco prezzo ai loro nonni ai tempi grami della Grande Guerra. No, i bolognesi coi capelli grigi sospirano e alzano gli occhi perché cercano qualcosa. Cercano i canestri. I canestri che mezzo secolo fa su quel pavimento a losanghe e tra le spire azzurrine delle cento sigarette gli hanno regalato, con la magia del basket, il sogno semplice di un’America fatta in casa. Quella Bologna che con dignità si rimetteva in piedi, stava diventando la città dei canestri e il miracolo avveniva proprio lì, in una sala centralissima e misteriosa che fu il tempio di una passione nuova e la scusa per tornare a sorridere. La pallacanestro all’epoca veniva dagli anni eroici della palestra di Santa Lucia, in via Castiglione. Ma in Sala Borsa fu un’altra cosa: la passione, a lungo confinata ai discorsi tecnici degli intenditori, dilagò e in appena dieci anni anche quella bomboniera che aveva raccolto i fasti del basket bolognese si era già fatta troppo piccola per contenere i sogni e i bisogni degli innamorati della pallacanestro.”
Bisognerà attendere il 1957 per il trasferimento al Palasport e per i derby con la Fortitudo, che nasce formalmente nel 1962. La Virtus era la società ritenuta più vicina agli ambienti della borghesia e del ceto medio-alto, la Effe quella del popolo. Nel 2005 vincerà il secondo dei due scudetti nel palmares, poi una lunga stagione di alti e bassi, fino alla tempesta societaria che la dovette far ricominciare dai campionati dilettanti regionali. Sempre lì, al vecchio Palasport. I bolognesi lo chiamano ancora oggi “Il Madison di Piazza Azzarita”.
“Gli anni d’oro – mi racconta Michelini – sono stati quelli a cavallo tra i Novanta e i Duemila. La semifinale di Eurolega all’Unipol Arena, la finale scudetto, l’attesa spasmodica per i derby. Un’attesa che iniziava in estate, ai giardini Margherita, quando gli appassionati si incrociavano sui campi di playground davanti a 2000-3000 persone e iniziavano a sognare. A volte i campioni arrivavano davvero, altre volte sembrava di vederli, e le leggende in estate viaggiano ancora più veloci”. Ancora una volta l’America a Bologna, i playground dove vittoria e sconfitta valgono come in un’arena, o in un palazzetto. “Oggi Bologna sa che quella dimensione di fine anni Novanta è probabilmente irraggiungibile, almeno a livello europeo – dice Michelini – ma a livello nazionale bisogna tornare a competere, e presto assisteremo a un nuovo derby in Serie A. Sarà bello, perché si giocherà al PalaDozza, di nuovo in città. E non ci saranno scuse di parcheggi, di traffico, di viabilità, perché la città quel giorno avrà un solo interesse: il basket”.
Mi spiega che da quando l’Unipol Arena è stata adibita ai concerti, il cuore pulsante dello sport bolognese è tornato a essere la città. Ci sono posti dove parlare di basket fino alle 3 di notte, e uno di questi è il Mulino Bruciato, proprio vicino ai giardini Margherita. È una trattoria, perché a Bologna non si parla di basket davanti a un hamburger, ma con un piatto di tortellini. Perché l’America non è mai stata così vicina, come negli anni Novanta, ma resta pur sempre “dall’altra parte della luna”. E a vederla non solo mette paura, ma fa venir voglia di restare qui per sempre.
Due squadre, un derby e tanti tifosi d’eccezione
Neanche a farlo apposta, Lucio Dalla era un grande tifoso della Virtus: celebre la sua foto con il pivot Binelli. Come lui, tra i vip, anche Gianluca Pagliuca, Andrea Mingardi, Alberto Tomba e Stefano Bonaga, il filosofo che disse “per me la Virtus è l’eterno ritorno dell’essere. In contrapposizione alla Fortitudo, che può essere considerata il divenire. La Virtus ritorna sempre”. Dall’altra parte del Reno ci sono invece Marco Di Vaio, Gaetano Curreri degli Stadio, Fabio Bazzani.
E poi c’è Luca Carboni, che simpatizza per entrambe, purché giochino in città. Avendoci passato l’infanzia, dietro a Porta Lame – ha dichiarato in un’intervista a Repubblica – il palasport di piazza Azzarita è stato per Carboni un luogo speciale: “Mio padre era molto legato alla Fortitudo, mi portava a vedere gli allenamenti in San Felice, ma mai alle partite. A palazzo iniziai ad andare con gli amici, a minibasket ci davano i biglietti. Poi dal ’76 in avanti ho fatto l’abbonamento ogni anno, (…). Però poi dall’81, quando presi a lavorare con gli Stadio, andavo pure alla Virtus: Dalla aveva tre abbonamenti, accompagnavo lui o Tobia Righi. E Lucio qualche volta veniva con me a vedere la Effe. Mi piaceva il basket, tutto qui, in quegli anni c’erano grandi campioni ed era bello vederli, pur da non tifoso. Sono sempre stato contro questa rivalità, io tifo per la mia squadra, ma non contro gli altri. Spesso andavo in trasferta, e da nessuna parte ho provato l’emozione che ti dava questo posto (…)”.
Dentro al gioco c’è Bologna, che è pronta a vivere un nuovo derby. Essere contro divenire, V contro F, bianconero contro biancoblu. Il sogno di rivedere Ettore Messina e quello di rivedere Belinelli come presidente, sempre all’ombra delle Due Torri. Perché puoi provarci a sognare l’America, ma poi è come tendere un elastico: alla fine devi mollarlo e “la vita ti ricatapulta lì”. A Basket City.
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