Se la nostra fosse una società in cui le etichette non contano nulla, potremmo parlare solo di vergognoso sfruttamento: pratica indegna, disumana e a quanto pare, nel 2020, non ancora diventata quantomeno anacronistica. Invece le etichette qui ci sono tutte: chi sfruttava è di discendenza nobile, è bocconiano, è uno che con la sua start […]
Fuga dei cervelli e nostalgia del caos
In questi tempi il dibattito politico è molto acceso sulla fuga dei cervelli, quel fenomeno per cui centinaia di migliaia di giovani stanno lasciando il Paese in cerca di migliori fortune. C’è chi li apprezza perché dimostrano che il sistema educativo funziona al pari, o al meglio, della concorrenza, e c’è chi li critica perché […]
In questi tempi il dibattito politico è molto acceso sulla fuga dei cervelli, quel fenomeno per cui centinaia di migliaia di giovani stanno lasciando il Paese in cerca di migliori fortune. C’è chi li apprezza perché dimostrano che il sistema educativo funziona al pari, o al meglio, della concorrenza, e c’è chi li critica perché abbandonano la patria a chissà quali sciagure. C’è chi li paragona ai bisnonni che emigravano con la valigia di cartone e chi li continua a dipingere come dei viziati mai contenti di quanto hanno.
Fuga dei cervelli: differenze tra Italia e UK
Per me, emigrato due volte e abituato al pay peanuts, get monkeys anglosassone, è molto divertente vedere come ci sia tanto spreco di fiato, carta stampata e post sui social media, quando poi il nocciolo del problema dovrebbe essere chiaro a tutti. Se un neodiplomato/laureato, senza santi in paradiso che gli trovino un lavoro remunerato o lo mantengano, si vede costretto a paghe da fame che neanche si qualificano come “stipendio”, fare la valigia e trovare fortuna all’estero è sicuramente una valida opportunità.
Questo feci io all’inizio degli anni Novanta, quando la congiuntura era negativa e trovare un lavoro in azienda era difficile. Fu così che ebbi modo di lavorare in UK per una nota multinazionale di pneumatici, e avviare un percorso di crescita professionale molto più rapido di quanto capitava agli amici rimasti in Italia, e che mi consentì di rientrare in patria molto avvantaggiato rispetto a chi non era mai uscito.
Una prima riflessione su ciò che manca al modo di lavorare, e specificamente al modo di introdurre i giovani al mondo del lavoro, è che nei paesi anglosassoni non si investe adeguato tempo e sforzo nel plasmare la pazienza e l’umiltà del giovane. Potrebbe quasi dispiacere, ma in UK non devi sottometterti per anni a qualcuno prima che ti venga dato un progetto importante, e infatti non cresciamo con le adeguate dosi di pazienza e rispetto per gli anziani. Proprio questo difetto nel rapportarmi con “i vecchi” ha poi causato conflitti al mio rientro in Italia, ma sono felice della loro risoluzione. E per giunta in UK non ci insegnano il senso dell’umorismo.
Dall’UK agli USA
Vent’anni dopo, nel 2010, sono riemigrato alla volta degli USA dove dopo qualche anno ho deciso di fare il salto da dipendente a imprenditore, avendo quindi modo di gestire tutti gli aspetti professionali possibili. Posso testimoniare la notevole differenza culturale tra USA e UK, dove il secondo per tutta una serie di aspetti sociali e culturali è molto più vicino all’Italia, a riprova dell’esistenza di una vera cultura europea; ma dal punto di vista professionale vediamo un’ulteriore differenza rispetto a quanto siamo abituati in Italia. Qui la persona si concentra a fare particolarmente bene una cosa, e solo quella. La burocrazia è per molti aspetti anche più complessa di quella nostrana e sicuramente molto più rigida, e non sentiamo parlare di “flessibilità” come di una dote di pregio, ma spesso come il suo opposto. Questo è un ulteriore motivo per cui gli italiani tendono a far particolarmente bene in America: perché generalmente abbiamo la flessibilità mentale di considerare almeno due punti di vista, di pensare ad almeno due strade per arrivare allo stesso obiettivo.
Un vantaggio secondario della forte onda di cervelli in fuga, e del generale apprezzamento professionale degli italiani in America, è che tutta una serie di elementi che prima scarseggiavano ora sono disponibili in abbondanza. È molto facile interagire con folte comunità di italiani all’estero, mantenendo quindi un contatto stretto con le nostre radici e fare in modo che i nostri figli continuino quel rapporto di italianità che ci distingue. Allo stesso modo è facilissimo trovare qualsiasi elemento della cucina italiana, ben fornito da Eataly e altre multinazionali solidamente presenti in loco. Quindi posso confermare che pizza, caffè e prosciutto non ci mancano.
Per altro verso, qui in USA sono così scientifici nel loro studio dei rapporti personali che ci insegnano come occorrano 50 ore per conoscere superficialmente una persona (acquaintance) e ne servano invece 250 per arrivare ad un vero rapporto di amicizia (friendship). Per noi italiani pare assurdo dover controllare quante ore spendiamo col prossimo, siano esse pause lavorative, o uscite nel tempo libero, o altre occasioni. Ma questo viene proprio dalla “necessità” americana di dare una ricetta per qualsiasi cosa, da come si compongono i temi a come si devono scrivere i CV o i business plan, fino a ciò che si deve dire in una cold call per aprire un nuovo contatto commerciale.
Che cosa manca a chi?
Di fronte a questa notevole rigidità mentale non possiamo che soffrirne: proprio in questi giorni, ad esempio, sto aiutando un altro cervello, che dopo esser fuggito al MIT di Boston ha pensato di rientrare a Firenze. Da post-grad (ovvero chi ha terminato la laurea magistrale ma non ha ancora iniziato il dottorato di ricerca) al MIT aveva un budget di spesa di $36,000 annui, ovvero: compilando gli opportuni moduli entro le scadenze previste poteva spendere in autonomia quella cifra per le proprie ricerche. Tristissimo per questo livello di burocrazia, è rientrato in Italia e ha visto con i suoi occhi professori di ruolo che abitualmente pagano di tasca propria anche toner e carta. Dopo qualche mese di testate contro i capitelli locali, ha pensato che forse fosse meglio rientrare da questa parte dell’oceano e organizzare il proprio sviluppo professionale con un’ottica internazionale.
In conclusione, senza riprendere riferimenti che ho già dato in articoli precedenti alle differenze culturali tra i diversi paesi, posso dire che per chi è all’estero manca quella dose di caos creativo che in Italia mettiamo in evidenza per uscire da problemi apparentemente difficili, o anche per inventare soluzioni nuove a problemi ancora da inventare, creando un mercato. Questo perché all’estero il rispetto della burocrazia è borderline fondamentalista-violento (consiglio i testi di David Graeber sul tema), e questo a sua volta riduce la fantasia che si trova in ambiente professionale. Al tempo stesso, da persona che è emigrata due volte, rientra in Italia due volte all’anno e ha lavorato in parecchi Paesi in tutti i continenti, voglio chiudere con l’estrema banalità: ogni Paese ha i suoi pro e i suoi contro, e vale la pena girare per conoscerli.
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