Gamification: per molti manager ma non per tutti

Nel 2010 il famoso game designer Jesse Schell conia il termine gamification pronunciandolo in una conferenza a Las Vegas. Da quel momento si apre una strada che diventa in pochi anni un trend universale, grazie anche e soprattutto al progresso e all’accessibilità di tecnologie e approcci digitali. Il volume di affari passa da zero nel […]

Nel 2010 il famoso game designer Jesse Schell conia il termine gamification pronunciandolo in una conferenza a Las Vegas. Da quel momento si apre una strada che diventa in pochi anni un trend universale, grazie anche e soprattutto al progresso e all’accessibilità di tecnologie e approcci digitali.

Il volume di affari passa da zero nel 2010 a 5,5 miliardi nel 2018, e ad oggi il 70% delle big corporations mondiali ha utilizzato almeno una volta la gamification nelle proprie attività di business. Sembra che rappresenti più di una moda: è uno zeitgeist dei nostri tempi. Trova la sua forza nella necessità di creare ingaggio e motivazione in un contesto dove l’attenzione di tutti è sempre più labile e confusa. Non è un caso che le applicazioni più concrete siano nel marketing, dove l’urgenza è il profitto.

Avendo una maggiore attenzione per il lavoro sul campo che per l’accademia, ho dovuto navigare un po’ online per capire meglio il fenomeno. Vi consiglio di fare altrettanto. Scoprirete che quando si parla di gamification si parte dalla comune definizione di “meccaniche e dinamiche di gaming applicate a contesti molto diversi dai videogiochi”; dopo di che c’è di tutto e di più, poiché il termine è soprattutto un concetto ibrido che vive dalla messa a sistema di competenze e mondi distanti. Come tale è difficilmente catalogabile, e invece facilmente (e fin troppo) utilizzabile per targare un’iniziativa in modo innovativo.

La gamification ha pochi anni di vita, quindi. Tuttavia chi di voi si occupa di formazione, comunicazione interna e people engagement ha certamente sperimentato molti anni prima del 2010 le dinamiche di gioco per fini di apprendimento. Per questo ho cercato di capire che cosa c’è di realmente nuovo e più profondo della semplice applicazione del gioco al business.

Per quanto mi riguarda, ho perseguito con continuità l’ibridazione dei linguaggi del business con mondi diversi, e negli ultimi anni ho sviluppato con la mia azienda diversi prodotti e approcci di frontiera. Prontamente, molti esperti hanno inquadrato diverse di queste innovazioni nell’ambito della gamification. Direi quindi che mi sono trovato inconsapevolmente dentro il perimetro della gamification, trascinato dalla sperimentazione con i clienti e dagli obiettivi di innovazione più che dallo studio, ed è da questa prospettiva che posso fornire qualche riflessione.

 

I manager, la complessità e il bisogno di un nuovo metodo di apprendimento

Dalla frontiera si vedono alcuni fenomeni consistenti. Ne cito due che ho imparato a conoscere da vicino: la mutazione delle esigenze di apprendimento manageriale e l’improvviso avvento dell’umanità aumentata.

Parto dalla prima mutazione, sintetizzandola con questa provocazione: quanti manager oggi, realmente, migliorano le proprie performance dopo il secondo corso di leadership? E grazie al terzo, e poi al quarto, etc.? Nessuno o quasi. Il terreno di sfida di tutti i business è ormai la complessità, e la necessità del manager – e di chiunque lavori dentro un perimetro complesso – è di abbandonare il mondo delle formule per saper pensare e tradurre in azione in modo flessibile la propria natura, le proprie competenze ed esperienze manageriali, calandole nella situazionalità. I perimetri stabili, che conducono alla maturazione di quella che Kahneman descrive come intuizione esperta, sono sempre più rari, e il management ha bisogno di palestre di allenamento sempre più simili alla vita reale.

È un mondo nuovo che si traduce in un terreno di apprendimento meno puramente cognitivo, ma fatto di sperimentazione. A conferma di questo, le più importanti business school mondiali hanno sancito la necessità di puntare sulla experience e sull’azione, abbandonando i corsi come momento centrale dell’apprendimento. Si impara facendo, e non si imparano più verità assolute, ma ci si allena a governare i contesti. Le formule della formazione sono obbligate a diventare sofisticate perché devono accogliere al contempo sapienza di business, dinamiche e metriche che privilegino l’azione, e tecnologie provenienti da mondi dove l’engagement è centrale e non gregario.

Un altro concetto cardine è la “formula formativa sofisticata”. La competenza basata sulla contaminazione è una competenza complessa e spesso mal interpretata. Il mondo organizzativo fatica a liberarsi dai paradigmi deterministici e meccanicistici che leggono i fatti come composizioni, somme, dinamiche lineari. Rileggete qualche riga sopra. Tutti comprendono subito questi concetti, ma molti li archiviano con eccessiva facilità; troppi ancora li leggono con categorie obsolete che traducono la contaminazione come una sommatoria di parti. La formula della gamification nella formazione manageriale è sofisticata, perché le varie conoscenze e competenze che entrano nel sistema di design ed erogazione devono percorrere molta strada insieme per ibridarsi e generare un team in grado di concepire soluzioni di gamification al contempo leggere e profonde. Ogni interprete porta la sua competenza, ma diventa anche un po’ esperto di tutto; e la competenza risultante non è dei singoli, ma un prodotto di team. Questa formula è necessaria se si vuole dare consistenza ed evoluzione continua alla capacità progettuale.

 

Riavvicinare formazione e vita reale attraverso la gamification

La distanza tra formazione e vita reale è il vero problema percepito dai manager oggi, e rappresenta un elemento costante, poiché la complessità è crescente e occorre adeguare le metodologie di apprendimento. Per questo l’attività di gamification dovrebbe avere una priorità su tutte: fare sì che i manager o la comunità manageriale al termine della attività debbano potersi sentire sorpresi e consapevoli di un breakthrough.

Molte attività di formazione ispirate dal game design non hanno questa caratteristica. Spesso si limitano essenzialmente a divertire e motivare. Torno quindi a spiegarmi meglio sul mix di leggerezza e profondità, che cerco di perseguire e condividere con i colleghi come un mantra. Potendo disporre i due termini su due assi incrociati, possiamo definire l’opposto della leggerezza come pesantezza, e l’opposto della profondità come superficialità. Sembrano quattro posizioni distinte, ma in realtà la pesantezza e/o la superficialità sono le più frequenti, perché più frequentemente ci focalizziamo o sulla necessità di dare spessore e serietà all’esperienza, o di renderla giocosa e attraente, o motivante.

Scivola su uno di questi due attributi una progettualità che non ha sviluppato appieno la comprensione di come la leggerezza possa abilitare lo spessore anziché ostacolarlo, e in alcuni casi costituisca l’unica strada per consentire il superamento delle difese e dei freni paradigmatici all’apprendimento. Nel caso della formazione manageriale, il mutamento delle esigenze di apprendimento va proprio in questa direzione. Ad esempio abbiamo lanciato un prodotto che si propone di essere un potente strumento di allenamento manageriale e nel quale il fruitore si muove sempre e contemporaneamente su tre livelli: un’avvincente serie thriller, un game con tanto di scores e livelli, e un percorso di apprendimento sul complexity management: un’esperienza leggera e profonda al contempo.

Introdurre meccaniche e dinamiche del game design nella formazione manageriale, quindi, per il designer vuol dire saper tessere insieme leggerezza e profondità, e per i compratori e i fruitori essere pronti ad accettare questo approccio.

Spiego quest’ultimo punto. La gamification non può prescindere da diverse precauzioni d’uso, legate alla necessità di paradigmi favorevoli. Prima di avviare un progetto ad esempio mi chiedo: quanto il committente vuole semplicemente un approccio trendy o quanto vuole realmente incidere? Quanto il committente vuole spingere sulla profondità utilizzando pienamente il potere della leggerezza? Quanto i manager saranno disposti al gioco? Quanto saranno – committenti e manager fruitori – davvero disposti a competere e misurarsi con score e risultati, e a esporsi?

Domande che avranno sempre più una risposta affermativa, poiché c’è un secondo mutamento essenziale per l’affermazione della gamification. Riguarda una sorta di mutazione genetica che l’umanità sta affrontando grazie alla digitalizzazione. Per dirla con Baricco, di cui consiglio il libro The Game, è l’umanità stessa che nella sua mutazione ha determinato l’ineluttabile, cioè un mondo digitale che consente all’uomo di vivere contestualmente nella realtà e nella virtualità. Sembra filosofia, ma vi invito a considerare come è mutato il nostro vivere, comunicare, imparare, progredire, in simbiosi con la digitalizzazione.

 

Immersività e narrazione per formare i manager di domani

I linguaggi e le dinamiche del gaming sono qualcosa di più di un trend: rappresentano un’espressione del modo in cui stiamo evolvendo. Al punto che l’apprendimento manageriale, dovendo attingere alla sperimentazione della complessità, non può fare a meno di formule di ingaggio sofisticate e contaminate da quel mondo.

Tra tutte le formule di ingaggio, io e i miei colleghi abbiamo seguito due sentieri: quello della immersività e quello della narrazione, i più adatti all’allenamento dei comportamenti manageriali nella complessità. L’immersività va ricercata in primis nella massima aderenza dell’esperienza alla realtà ancor più che in metodologie interattive, e l’indicatore più efficace è lo stato di flusso (flow) che vive chi partecipa alla esperienza. Ritmo, pressione, impatto evidente delle scelte e punteggi in tempo reale sono elementi funzionali se utilizzati con lo scopo di creare immersione, e al contempo risultano essenziali per l’apprendimento. Quando in un videogame l’energumeno mi colpisce con la clava, cado a terra e perdo score ricevendo così feedback immediato e chiaro delle mie azioni. Se incontro l’energumeno una seconda volta, o faccio tesoro del feedback per ristrutturare l’azione ed evitare la clava oppure sarò colpito ancora. Questo ciclo reiterato è estremamente potente. Il punteggio di un videogame è quindi in un certo senso sia misura delle mie qualità che espressione di quanto sono migliorato in quella sessione. Questo sistema è immersivo e mi sospinge ad apprendere sperimentalmente.

Il secondo sentiero è quello della narrazione. Le storie sono il contesto più adatto per sperimentare decisioni e comportamenti. Entrare dentro una vicenda e cambiare gli sviluppi degli eventi e di ciò che accade ai personaggi (le storyline) con le proprie azioni è un terreno di pratica della responsabilità e della situazionalità. L’immersione in storie, sfruttando media digitali e analogici contaminati tra loro e includendo nella narrazione l’attivazione di dinamiche relazionali, è il fronte più affascinante e avanzato della formazione manageriale.

Se volete coinvolgere i vostri manager in un’esperienza (non in un corso) che affondi la sua efficacia nella mutazione del mindset e delle dinamiche di apprendimento di cui è protagonista il fruitore, prendete spunto da queste suggestioni: design piacevole in grado di generare soddisfazioni sensoriali, struttura riconducibile a uno schema problema/soluzione ripetuto più volte, aumento progressivo della difficoltà, inesistenza e inutilità della immobilità, apprendimento dato dal gioco e non dallo studio di astratte istruzioni d’uso, fruibilità immediata senza preamboli, rassicurante esibizione del punteggio ogni tot passaggi.

Parafrasando le parole di Baricco, se volete incidere nell’apprendimento manageriale ma la vostra soluzione non ha almeno la metà di queste caratteristiche citate, state facendo qualcosa con poche possibilità di successo, o che magari è già morto da tempo.

 

Photo by Jakob Owens on Unsplash

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