Mattia Toccaceli: “La musica vera è nel ragù di nonna”

Mattia Toccaceli, marchigiano classe ‘88, rientra tra quelle figure che non è possibile imprigionare in un’unica categoria. Emilie Wapnick lo definirebbe un multipotenziale. Un ragazzo che ha accettato questa molteplicità di sfaccettature, scegliendo di metterla a completo servizio della musica. “Non so definirmi. Sulla mia pagina Facebook ho scelto regista, ma basta scorrere le foto […]

Mattia Toccaceli, marchigiano classe ‘88, rientra tra quelle figure che non è possibile imprigionare in un’unica categoria. Emilie Wapnick lo definirebbe un multipotenziale. Un ragazzo che ha accettato questa molteplicità di sfaccettature, scegliendo di metterla a completo servizio della musica.

“Non so definirmi. Sulla mia pagina Facebook ho scelto regista, ma basta scorrere le foto per capire non si tratta solo di quello”. Regista, autore e media manager sono infatti professionalità distanti tra loro, ma che si ritrovano a convivere nella mente e nel cuore di chi è cresciuto con i dischi dei Pearl Jam e la profonda convinzione che una storia possa davvero cambiare il mondo.

“Ascoltavo i loro dischi e quelli dei grandi cantautori italiani, in auto con mio padre. Lì ho capito che la forza che ti dà uno strumento è quella di poter cambiare il mondo.”

Per il viaggio di Mattia però la meta è ancora sconosciuta. Ha attraversato molti mondi, facendo pit stop in radio e tv e incrociando i passi con i grandi dello spettacolo italiano. Nel suo costante peregrinare non è chiaro se insegua o anticipi; la cosa certa è che a ogni passo si ferma per raccogliere una storia da raccontare e proseguire con un ricordo in più. Una storia, la sua, che inizia a Castelfidardo, la patria della fisarmonica, quando capisce di non poter diventare un calciatore professionista e decide di dedicarsi completamente alla musica.

“Ero bravo a giocare, ma non ci ho messo molto a capire che non avrei potuto fare del calcio il mio lavoro. Così a 14 anni ho iniziato a suonare la chitarra e il pianoforte, ma soprattutto a scrivere i testi che interpretavo. Avevo capito che ciò che avevo a cuore era comunicare alle persone.”

Da lì per Mattia è iniziata un’avventura che lo porta, con varie vesti, a frequentare gli ambienti più esclusivi della musica italiana. Durante gli anni del liceo fonda una delle prime web radio italiane per promuovere i suoi brani; poi passa a Radio2 e transita al Maurizio Costanzo Show come assistente di regia audio. Lì, accordando una chitarra, lascia scoprire la sua musica a Christophe Balabanis e Paolo Baldan Bembo, che decidono di produrre un suo disco dal titolo Il Funambolo.

“Avevo sempre visto il Maurizio Costanzo Show sul divano, in mezzo ai miei genitori, ed essere al Teatro Parioli è stato fantastico. Ricordo che rimasi impressionato perché era molto più piccolo di quanto sembrasse in tv. La figura di Costanzo invece era enorme. Si vociferava che il silenzio riguardo un nuovo assunto era il simbolo della sua accettazione. Su di me non disse mai nulla, mi aveva accettato nel team.”

Contemporaneamente ai lavori in tv e nel mondo operistico dei grandi teatri, prosegue gli studi in ambito digital e si affaccia al mondo della regia video, non trascurando la sua vocazione autoriale: “Dopo il Maurizio Costanzo Show ho iniziato a lavorare con le case discografiche come autore e regista. Mi è sempre piaciuto creare. Poi si sono aggiunti i teatri perché mi ero reso conto di aver, in un certo senso, creato la figura del media manager.” Ma un punto di svolta del suo percorso è l’incontro con Michele Monina, uno dei più affermati critici musicali italiani.

“La fortuna ha voluto che con Michele ci completassimo. Lui è un uomo e un professionista strepitoso, ma era un po’ carente sui nuovi media, e ha trovato in me una spalla sulla quale fare affidamento. Dalla collaborazione è nata un’amicizia, e si sa che tra amici si può creare di tutto.”

Oggi fanno coppia fissa realizzando produzioni per Il Fatto Quotidiano, Rolling Stones Italia e RTL 102.5, coinvolgendo artisti del calibro di Enrico Ruggeri, Ermal Meta, i Negrita o Gigi d’Alessio. “La soddisfazione più grande è pensare un format folle (come quello con Michele che dorme e in sogno gli appare un noto cantante che esegue una sua hit musicata da tre musiciste che suonano strumenti giocattolo), proporlo agli artisti e vederli entusiasti nell’accettare la sfida”.

Poi c’è Sanremo, un Festival che è diventato una seconda casa per Michele e Mattia. “Andiamo a ogni edizione e facciamo sempre un sacco di casino, quest’anno saremo sempre in diretta. Lì ho scoperto, e imparato ad apprezzare, il mondo del mainstream. E poi c’è tutto il backstage: per me che sono romanista vedere un derby con Alex Britti e Daniele Silvestri (romanisti anche loro) è una cosa che non ha prezzo”.

Oltre all’impegno nel Festival, Mattia oggi scrive programmi tv, brani, dirige tecnici e artisti e ogni tanto presenta eventi dal vivo. Sembrano tasselli lontani di un puzzle disordinato a tema musicale: “È la forza della trasformazione che alla fine mi appassiona più di ogni cosa, ho bisogno di vivere di stimoli sempre nuovi.”

Per questo numero di Senza Filtro lo abbiamo raggiunto per lasciarci raccontare la sua storia e provare a entrare nel suo osservatorio privilegiato sul panorama musicale italiano.

 

 

Io sono nato a metà tra le cassette audio e i cd, ma ricordo bene l’emozione di entrare nel negozio di dischi. Oggi tutta la musica del mondo è a portata di tap. Pensi sia un bene o un male?

Purtroppo credo sia un male. Avere tutto significa non solo togliere attenzione ma anche, paradossalmente, privare della capacità di scelta. Noi dovevamo scegliere chi ascoltare, perché per ascoltarlo dovevamo spendere. Oggi purtroppo è tutto molto più flat.

Quindi è peggiorata la qualità della musica o quella dell’ascolto?

Forse entrambe. L’ascolto perché, come ti dicevo prima, noi i dischi li consumavamo, perché avevamo solo quelli, e all’ennesimo ascolto capitava di accorgersi di una cosa che non si era mai notata. Oggi si skippa compulsivamente e a metà brano. Come puoi capire lo sviluppo di una canzone se neanche la ascolti integralmente? Sull’altro fronte sicuramente si è accentuata la dimensione del marketing e dell’entertainment. Per me la musica è vita, è la ninna nanna che mi cantava mia madre, è un canto religioso o un inno di guerra. Oggi è solo, o in grandissima parte, produzione col fine di intrattenere e spettacolarizzare.

Colpa dei talent?

Ti faccio un esempio. In tv oggi i talent show sono principalmente di due generi: musica e cucina. Parlando dei secondi si può fare una bella metafora. Guardandoli sembra che chi non sappia impiattare non sia un bravo cuoco. Mia nonna faceva il ragù più buono del mondo lasciandolo bollire per più di ventiquattr’ore, eppure non ha mai impiattato in vita sua. Oggi vogliono far passare il messaggio contrario: piatti impossibili in trenta minuti (il tempo è più importante della qualità), e un ruolo fondamentale riservato all’estetica (comunicazione) e al nome del piatto (marketing). Penso e sogno la vera musica come il ragù di mia nonna, che viene servito quando è pronto, senza troppi fronzoli, capace di portare un messaggio, e soprattutto buonissimo.

Quelli musicali, invece?

Venendo a quelli musicali, credo semplicemente che siano delle scuole. Spesso ottime, peraltro. Il problema è che i voti, e di conseguenza quella che possiamo chiamare promozione, vengono assegnati dal pubblico a casa e non dai docenti. Poi c’è la produzione, che è assolutamente smisurata: tutto è finalizzato a realizzare prodotti per il mercato. E per finire, il successo (temporaneo) che generano è pressoché ingestibile. Un ragazzo che in pochi mesi si ritrova a passare dall’anonimato a star fa fatica a reggere il colpo. Non a caso sono certo che non ricordi chi ha vinto, ad esempio, X Factor due o tre edizioni fa.

È vero, ma qualcuno resta. Penso a Mengoni, Emma Marrone, Noemi e – in ultimo – i Måneskin.

I Måneskin sono un ottimo esempio. I loro tour sono sponsorizzati pesantemente da una nota marca di chewing gum, e questo è l’esempio perfetto di come siano diventati degli ingranaggi di un meccanismo ben più ampio della sola musica. Ma è il prezzo che si deve pagare per essere mainstream. Quel mainstream che è un amico nel breve termine, ma nel quale di certo non c’è musica. Purtroppo è tutta una questione di comunicazione e marketing.

I talent si propongono sempre come nuovi, innovativi e controcorrente, ma alla fine i vincitori passano quasi sempre per Sanremo. È perché l’Ariston resta il palco più importante d’Italia?

Usciti dai talent lo scopo dei ragazzi è vendere, e quindi, per i motivi che ti dicevo prima, ben venga Sanremo. Si punta al rimbalzo del rumore. È questione di posizionamento.

Hai detto che musica e mainstream sono due concetti antitetici. Io però vedo un piacevole ritorno all’importanza dei testi. Da una parte le influenze rap dall’altra una nuova forma di cantautorato. Anche lo scorso anno proprio ad X Factor ha vinto uno scrittore forse più che un cantante.

Anastasio (vincitore della scorsa edizione di X Factor) scrive benissimo, così come Ultimo, Salmo e tanti altri. Ma anche lui ha attraversato un periodo buio per un errore di comunicazione. Dopo la vittoria si è scoperto che aveva messo dei like su Facebook ad alcuni post di Salvini, Casa Pound e altre realtà più o meno estremiste. Questo gli ha causato non pochi problemi. Il punto è che sono talmente tanto dei prodotti che gli errori che si pagano sono quelli comunicativi prima di quelli musicali. Poi la potenza delle parole non può e non deve essere abbandonata. È bello ascoltare testi impegnati, ma anche qui, se si vede che qualcosa funziona – nel mainstream – viene immediatamente clonato. Fabri Fibra, ad esempio, ha avuto problemi nella sua vita, ma è di Senigallia, non è cresciuto nel Bronx. Oggi si tende a replicare ed esasperare quello che funziona. Quindi soldi, sesso, droga e – appunto – l’idea di Bronx.

Cambiando continente, mi ha impressionato vedere la regina del mainstream, Lady Gaga, in A Star is Born. Sembrava una ragazza acqua e sapone.

È vero, ma lei ha potuto permettersi quel lusso grazie alla sua storia e a tutto quello che aveva fatto prima. Lei è lo spettacolo, è l’entertainment. Poi canta benissimo, ma per “cantare solo” ci ha messo anni e c’è voluto un film, una finzione, per farglielo fare.

Quindi non c’è un vero cantautorato italiano.

I veri cantautori, quelli che riescono a conciliare il loro essere mainstream (riempire stadi, dunque) con la vocazione musicale più pura, sono davvero pochi. Si contano sulle dita di una mano. Anzi bastano due dita, perché direi solo Jovanotti e Cremonini. Due artisti che si prendono il loro tempo, che fanno uscire un disco quando sono pronti.

Che cosa speri ci sia nel futuro della nostra musica?

Oltre una legge che vieti le cover band?

Sì.

Beh, direi più spazio per le cantautrici. Per qualche motivo fanno fatica a emergere, eppure nel tempo abbiamo costruito, con Michele, un gruppo WhatsApp nel quale ci sono artiste di tutta Italia. Spesso condividono i loro brani e sono bellissimi. Spero in un futuro in cui ci sia più eco per la loro arte.

Da piccolo ci hai confessato che sognavi di entrare in questo mondo. Ora che ci sei dentro, hai trovato qualcosa che avresti preferito ignorare?

Sono arrivato gradualmente, ma con un’idea romantica tipica di tutti gli innamorati. Poi ho scoperto, non senza sorpresa, che nel mondo della musica non si parla di musica, ma di classifiche e numeri. La possibilità di emergere dall’interno è qualcosa di veramente remoto, e farsi notare è quasi impossibile; a volte si ha l’impressione di essere di intralcio. L’ambiente poi è sempre più chiuso e si è quasi obbligati ad accettare continui compromessi. Questo vale nel campo artistico perché anche le star sono tarate sulla filosofia del selfie. È il massimo che possono darti e, concesso quello, è come se avessero adempiuto al loro dovere morale. In campo tecnico invece c’è tanta, tantissima umanità. Molta più di quella che mi sarei aspettato di trovare.

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