All’inizio era una telefonata, entrambe rinchiuse nelle proprie case, in un tiepido giorno di Fase 2 di lockdown in Italia. Poi è diventato un incontro, dove perdi di vista lo scorrere del tempo. Alla fine eravamo in due su un tappeto volante a sorvolare tre continenti: Asia, Africa e Sudamerica. Perché è lì che Francesca […]
Il brand di Expo è migliore della sua comunicazione
Esiste una grande teoria negli assetti strategici che si chiama “the golden circle” alla base della quale ci sono tre grandi cerchi, tre domande che dovrebbero essere alla base di ogni strategia: Cosa (fai), Come (lo fai), Perché (lo fai). Nella comunicazione dell’Expo, se alla prima delle due domande si è provato a dare una risposta, la […]
Esiste una grande teoria negli assetti strategici che si chiama “the golden circle” alla base della quale ci sono tre grandi cerchi, tre domande che dovrebbero essere alla base di ogni strategia: Cosa (fai), Come (lo fai), Perché (lo fai). Nella comunicazione dell’Expo, se alla prima delle due domande si è provato a dare una risposta, la seconda e la terza rimangono sospese, nella forma e nel giudizio.
Il primo punto è questo: c’è un rapporto dinamico, fluido e difficile da definire fra un prodotto e una marca, fra quello che il prodotto è e quello che viene percepito. Ci sono marche che vengono percepite meglio di quello che sono e viceversa. L’ideale per ogni marca è avere un’immagine al di sopra della realtà. È molto triste quando una cosa è migliore di come viene percepita. L’Expo appartiene a questa categoria: l’Expo come prodotto, come location, come tematica è molto meglio della sua comunicazione. È come se tu avessi un carattere molto forte ma lo stile con cui lo comunichi è più debole. Armani ha un prodotto molto buono, ma anche un’immagine molto buona.
La comunicazione non fa altro che raccontare nel modo migliore possibile qual è l’essenza del prodotto ma anche l’essenza del brand. Chanel ti dice non buttare via dei sacchetti, non buttare via i prodotti, riusali, riportali a noi. L’obiettivo di ogni brand non è solo quello di vendere ma anche di instaurare un rapporto continuativo con il consumatore. L’Expo è riuscito a far parlare di se’ molto più per i ritardi e per gli scandali che non per gli aspetti positivi, ma siccome l’Italia è specializzata nell’ultimo miglio ce l’ha sempre fatta e ce la farà sempre. Questo è importante perché non passiamo parlare di percepito se non parliamo di realtà.
Faccio un esempio fra realtà e percepito: 5 minuti di attesa alla cassa di un supermercato vengono percepiti come 12, per questo gli Istituti di Ricerca hanno consigliato alla Coop di aumentare le cassiere e fare meno manifesti. La gente pensa che i semafori rossi durino più dei verdi. Gli elementi che compongono un brand sono il posizionamento, cioè quello che tu riesci a far immaginare al consumatore e la brand identity, un sistema di segni e parole che serve a memorizzare tutta la comunicazione relativa al prodotto.
L’Italia è alfabetica, pur avendo una profondità di campo artistica, la nostra attenzione si concentra sulle lettere. Se facciamo il logotipo di una compagnia aerea facciamo una “A” mentre la British ha un ribbon, la KLM ha una corona. La Fiat ha la scritta Fiat mentre la Mercedes ha una stella. Siamo alfabetici mentre il mondo va verso il visivo: lo swash, la mela. Il linguaggio va verso l’immagine e la nostra grafica è rimasta agli anni 70. Questo ci spiega perché il marchio Expo è stile anni 70: è fondamentalmente alfabetico ed usa quei colori e quelle sovrapposizioni optical tipici di quegli anni. Expo ha approvato il suo logo con l’approccio dell’Ente Pubblico: un concorso fra le scuole, istituti d’arte, facoltà, politecnici. In questo tempo di falsa democrazia mediatica ha fatto passare il messaggio che tutti potessero disegnare l’Expo.
Anziché commissionare la propria immagine a studi grafici, agenzie o professionisti blasonati, fare un concorso con tanti soldi, non spendono niente e quindi si portano a casa quello che gli studenti offrono. Dopodiché si lavano la coscienza affidando la scelta ad una giuria formata da nomi altisonanti (di cui il più giovane ha settant’anni), ma anche il giurato più bravo del mondo se va a fare la spesa in un discount compra la frutta in offerta. Hanno spostato la qualità sulla giuria mediatica e non sul prodotto. Essendo un paese di esteti, a noi non interessa il prodotto ma “la bella figura”quasi come se fosse la giuria stessa a qualificare il prodotto.
I Love NY è un capolavoro – I cuore NY – ma non lo ha fatto uno studente, lo ha fatto Milton Glaser che era il più bravo e più famoso grafico di New York di quegli anni. Il Briefing era: i newyorkesi non amano NY, non c’è senso di identità, abbiamo voglia di comunicare con un segno grafico e visivo il nostro senso di appartenenza alla città. Non sono andati dall’ultimo degli arrivati e non c’è stata una giuria. All’Expo, è stato scelto il migliore. Ma chi lo ha scelto? Il secondo, che magari era ancora più bello, ha perso per pochi voti e soprattutto non hanno votato un milione di persone. Una scarsa rappresentatività. Quindi chi ha fatto questo logo? Andrea Puppa, uno studente. Quanto è costato? Niente. Chi lo ha scelto? Una giuria.
In tutta la progettualità di questo Expo si è cominciato dal marchio, non dai contenuti. Per intenderci, la strada principale che porta all’Expo l’hanno terminata il mese scorso, eppure è anni che si sa di Expo 2015. Il fare arriva all’ultimo momento in Italia. Il Padiglione ha dei ritardi perché si parte dal marchio, dalla bella figura.
La Torre Eiffel per Parigi, la lupa per Roma, la croce per la Chiesa, non sono marchi, sono simboli, segni che fanno ricordare e parlare. Qual’è il segno dell’Expo? Non sarà mica l’albero della vita, feticcio realizzato, poi bocciato, poi bloccato, poi rifatto con i soldi degli sponsor. Allora come riparare? Commissionano a Walt Disney una mascotte. Ma perché la più grande banca inglese commissiona il proprio segno ad un’agenzia inglese, quella francese va da un’agenzia francese, la Lufthansa ad un’agenzia tedesca e l’Expo di Milano viene affidato alla Disney? In Italia non è un valore essere italiani. Anzi, meglio essere esterofili. Ma a quanti italiani sarebbe piaciuto disegnare quell’Arcimboldo al posto di quel “fruttolo”…
Ma la cosa più importante non l’abbiamo ancora detta. Per tre anni tutti hanno sentito parlare di Expo, fino a 6 mesi fa, quando durante una tavola rotonda da Espansione, in compagnia di 12 opinion leader, uomini di economia, tutti lamentavano una cosa: “Non si capisce il tema”. E’ stata fatta una struttura di comunicazione che parte pian piano e aumenta in prossimità dell’Expo. Un percorso al contrario rispetto al mondo delle marche dove prima si fa una grande comunicazione e poi si presenta il prodotto: prima si divulga lo spot dell’auto e dopo l’auto arriva in concessionaria.
Sai che c’è l’Expo ma non sai qual’è il tema dell’Expo.
Tipico, paradigmatico italiano. Siamo più interessati alla brand awarness, cioè alla notorietà generalizzata della marca, che non al brand value cioè al valore che tu dai a questa marca. Tutti noi dobbiamo avere un rapporto con i brand quantitativo e qualitativo. Il valore della marca è quello che ti crea l’affettività, è lo zoccolo duro, sono i fedelissimi. Berlusconi ai tempi d’oro aveva un brand value molto alto adesso ha un brand value molto basso, seppure ha mantenuto una notorietà molto alta.
Si dice – e questa è la scuola di Toscani – che se ne parli bene, che se ne parli male, purché se ne parli, ma questa frase è roba di un secolo fa. Ci si sta spostando verso l’affinità tra target e prodotto. Il consumatore è diventato partner, bisogna farlo coinvolgere, parlare. La comunicazione di Expo è tutta orientata sulla frequenza e la notorietà del marchio che sicuramente è molto alta perchè la vediamo su tutti i banner e sui marchi degli sponsor. Ma anche la pubblicità televisiva dell’Expo ancora una volta non è stato uno spot di 30/60 secondi che ti dica cosa sia Expo. E’ stato fatto un passaggio di due secondi con il marchio Expo e lo slogan. Ma dimmi cosa sei, cosa vuoi fare, cosa vuoi che faccia io per te.
Se l’obiettivo era vendere biglietti, era sufficiente fare una qualsiasi (s)vendita. E’ vero che sono stati venduti tantissimi biglietti ma non abbiamo nessuna controprova di cosa sarebbe potuto accadere se ci fosse stata dietro un’idea, la ricerca di un tema, se fosse stato creato anche un valore. “Sono Lorenzo e sono a New York, sono Lorenzo e sono a New York” E’ stato fatto un ottimo lavoro di “presenza” ma può la presenza convincere milioni di persone ad andare ad un evento?
Ho un ufficio a New York e un presidio in Estremo Oriente. A New York io non ho visto nulla e non ho sentito niente su Expo. Il paradigma dell’Expo è Alitalia, grande in casa ma debole fuori o certi marchi di pasta che sono molto forti in Italia. Ma nel resto del mondo si mangia riso.
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