Ravviso i sintomi del coronavirus e mi prende il panico. Non voglio uscire incautamente. Devo parlare con qualcuno che mi spieghi, che mi rassicuri, che ne sappia davvero. E subito. Come? È qui che voci senza volto diventano l’ancora di salvataggio dei privati cittadini e dei nosocomi, che in assenza di questa valvola di sfogo […]
Il calcio e la leadership delle prossime mosse
È il 17 dicembre, e Mourinho ha la faccia di chi sa che la sua seconda avventura al Chelsea sta per concludersi. Si sente tradito dai giocatori, la sua squadra è lontana 20 punti dalla vetta della classifica e lassù c’è Ranieri con il suo Leicester. Il Manchester United è lontano, il Manchester City insegue […]
È il 17 dicembre, e Mourinho ha la faccia di chi sa che la sua seconda avventura al Chelsea sta per concludersi. Si sente tradito dai giocatori, la sua squadra è lontana 20 punti dalla vetta della classifica e lassù c’è Ranieri con il suo Leicester. Il Manchester United è lontano, il Manchester City insegue le volpi e la stampa giura che prima o poi le prenderà. Mourinho, faccia delusa e (sempre) fiera incassa. La delusione. E il comunicato stampa del Chelsea:
«Tutti al Chelsea ringraziano José per il suo immenso contributo da quando è tornato nell’estate 2013. Le tre Premier League, la FA Cup, la Community Shield e le tre Coppe di Lega vinte nell’arco delle due esperienze ne fanno il tecnico più vincente nei nostri 110 anni di storia. Ma sia José che la società concordano sul fatto che i risultati non sono stati abbastanza buoni in questa stagione e credono che sia nel miglior interesse di tutti prendere strade diverse. Il club desidera mettere in chiaro che con José ci si lascia in buoni rapporti, rimarrà sempre una figura amata, rispettata e significativa al Chelsea».
E proprio in virtù di questi buoni rapporti, Mourinho incassa, soprattutto, una ricchissima buonuscita da circa 40 milioni. Il tempo di prendersi sei mesi sabbatici e aspettare la migliore offerta. Uno come lui, deve solo scegliere: ci sono in ballo i soldi del Paris Saint-Germain, un ritorno (difficile, per questioni economiche) in Italia o la Real Madrid, dove però non si è lasciato benissimo con “vestuario“, lo spgliatoio blancos, da sempre poco incline agli eccessi di protagonismo degli allenatori. Al Santiago Bernabeu i toreador sono da sempre i giocatori. L’allenatore è quello che deve metterli in campo, a lui è riservato l’onere di far giocare bene la squadra e farsi notare il meno possibile. Per questo al Real hanno vinto, ma hanno sofferto personaggi come Capello e lo stesso Mourinho. Da quelle parti preferiscono un leader alla Zidane. Poche parole, pochissime interviste, aziendalista al punto giusto. E così alla fine Mourinho sceglie di ripartire dai soldi dei Glazer, un impero di oltre 4 miliardi di euro, ma reo di aver una delle contestazioni più grandi della storia del club, il Manchester United, dovuta al cambio di gestione finanziato da prestiti con beni presentati come garanzia.
Erano moltissimi anni che Mourinho avevo adocchiato la panchina del Manchester United, da quando era la casa di Sir. Alex Ferguson, allenatore dei Reds dal 1986 al 2013. La migliore offerta prevede un contratto da 25 milioni a stagione, ma soprattutto la possibilità di poter tornare ad essere lo Special One e di togliersi i panni, indossati, troppo spesso nella sua seconda avventura londinese, del “Normal One”, che non è non sarà mai. Tuta e felpa col cappuccio al posto dell’abito che indossava a San Siro, barba incolta, ma sentirsi a proprio agio a volte fa brutti scherzi: “Voglio restare al Chelsea e nel calcio inglese perché credo di essermelo guadagnato. Mia moglie mi dice spesso che mi sono guadagnato il diritto di fermarmi quando voglio. Sfortunatamente non sono il proprietario del Chelsea, io dipendo dal club e da risultati” affermava José un anno fa. Non è andata così, ma se ne farà una ragione. Quella che lo attende è forse la più grande sfida di sempre, da allenatore. Una carriera da manager, con una visione tanto chiara quanto cinica, per essere collocata nel mondo dello sport:
“Avevo un progetto per la mia carriera. – Afferma lo Special One in una bellisima intervista a Gary Neville per Rivista11 – Non sempre sei in grado realizzarlo. Volevo lasciare il Portogallo e andare in Inghilterra, chiaro. Quando ho lasciato l’Inghilterra volevo l’Italia. Morivo dalla voglia di andare in Italia dove la gente parla della mentalità e degli aspetti del gioco. E dopo volevo il Real Madrid. Questo percorso l’ho voluto moltissimo e ce l’ho fatta. Così mi sono chiesto: qual è il posto che ti piace di più? Dove sei più felice? Qual è la sfida più grande? Ho fatto la mia scelta. Lo dico sempre, in ogni club lavoravo e pensavo sempre in funzione di quel club, però tenendo sempre a mente la mia prossima mossa. Questa è la prima volta che non ho una prossima mossa in testa”.
Di certo c’è che Manchester, la città, vivrà e si godrà una sfida senza precedenti. C’è chi la vede solo come una realtà industriale tutta ciminiere e fumo ma, a quanto pare, Manchester è una delle città europee che più ha saputo evolversi e restare al passo coi tempi, con una crescita esponenziale negli ultimi dieci anni. In poco tempo è diventata la terza destinazione turistica di tutta la Gran Bretagna, dopo Londra ed Edimburgo. Da brutta è diventata bella, da decadente dormitorio è diventata uno dei centri di riferimento per lo stile, il design, la cultura (ci sono oltre 90 musei, sui quali spicca lo splendido capolavoro architettonico che dell’Imperial War Museum North) e la movimentata vita notturna, ormai quasi ai livelli di Londra. Antico e moderno si fondono in un mix di tradizione e high tech: vecchie case vittoriane ed edifici di mattoni rossi si amalgamano alla perfezione con nuove strutture di vetro e acciaio, progettate dai migliori architetti di fama mondiale come Calatrava e Libeskind. Per non parlare poi delle vecchie case abbandonate ristrutturate in loft di lusso, dei vecchi magazzini diventati negozi di tendenza o delle fabbriche trasformate in discoteche. Manchester è anche diventata la regina dello shopping. Dagli stilisti più famosi alle boutique alla moda, dai mercatini agli stilisti emergenti, dai manufatti agli oggetti eccentrici, non sarà difficile trovare qualcosa di unico in uno dei tantissimi negozi e centri commerciali disseminati per la città, ricavati dalla riconversione delle vecchie industrie tessili.
Juana Romandini, italiana trasferita a Manchester, account manager e customer care per un’azienda che produce materiali chimici grezzi, ci spiega che i soldi di Media City, da quando la BBC e vari enti televisivi sono stati spostati qui, hanno portato un giro di denaro non indifferente. Londra, a suo dire, non è più il punto di arrivo esclusivo di chi vuole venire in Inghilterra, la città ha visto un restyling totale negli ultimi 3 o 4 anni. Manchester continua a vivere di servizi e di industria, ma il calcio rappresenta una delle industrie (appunto) più floride. Sia l’Old Trafford o che l’Etihad Stadium registrano ogni week end il tutto esaurito, e se fino a 10 anni fa a vincere in Europa ci pensavano solo i Reds, da qualche anno a questa parte, Mansour bin Zayed Al Nahyan, 45enne sceicco di Abu Dhabi proprietario dei ‘Citizens’, tra le persone più ricche al mondo, si è messo in testa di vincere una Champions League.
Se dalla parte rossa c’è Mourinho, dalla parte blu del cielo grigio di una città sempre più al centro dell’Europa non solo calcistica c’è lui, Pep Guardiola: i suoi grandi risultati passano anche dalla multiforme capacità di rapportarsi con i giocatori. Il modo di gestire lo spogliatoio, il gruppo e i singoli. Dai plateali discorsi con i giovani fino all’isolamento, anche duro, dei big. Chiedere per informazioni al giovanissimo centrocampista della Germania Under 21 Joshua Kimmich, schierato come difensore nella partita decisiva del campionato scorso, contro il Borussia Dortmund. Una scommessa di Guardiola, brillantemente superata dal ragazzo. La partita è appena finita zero a zero. Guardiola ha braccato il suo giovane pupillo. Al centro del campo, gli ha fatto un intenso discorso post gara cingendogli le braccia al collo. Kimmich respira velocemente e pesantemente, senza capire se sta ricevendo una lode per la sua performance o un rimprovero. Sembra confuso. Questo momento contiene un aspetto centrale delle capacità di Guardiola che si tende a sottovalutare: il suo rapporto con i giocatori.
In fondo, un sistema funziona soltanto se tutti gli interpreti sono disposti a farne parte. Guardiola sta in quella linea sottile che separa l’amico dall’autorità, il suo è pugno di ferro con guanto di velluto. Al Barcellona, dove ha avuto la fortuna di avere una delle migliori formazioni a memoria d’uomo, ha gestito con maestria da equilibrista gli ego smisurati di alcuni dei calciatori più pagati al mondo, finendo comunque per irritare qualcuno. Il coraggio nella scommessa e i rapporti conflittuali sono forse un’eredità del suo maestro Johan Cruijff che gli ha insegnato tantissimo, sia di questioni tattiche che di gestione delle persone. Guardiola non accontenta le celebrità, perciò non potrebbe mai lavorare in un contesto di star come quello del Real Madrid, ma allo stesso tempo riesce a incrementare il valore dei giocatori (cosa che, per esempio non sempre riesce a Mourinho, accusato spesso di spremerli come limoni).
E aumentare il valore dei calciatori aumenta il valore delle squadre, dato che di business parliamo. È vero, Guardiola non ha vinto la Champions League a Monaco, ma diamo un’occhiata a questi numeri, in chiave aziendale. Prima del suo arrivo il Barcellona fatturava 308,8 milioni di euro, quando l’ha lasciato ne fatturava 482,2. Stessa dinamica al Bayern, passato da 431,2 a 487,1. Guardiola manager è un affare, al di là dei risultati sul campo. Per i club e ovviamente anche per se stesso, basti pensare che il suo ingaggio al Manchester City (25 milioni di euro a stagione, come Mourinho, per un totale 150 milioni per tre anni ripartito tra i due club) sarà il più alto, a pari merito con quello del portoghese, della storia un allenatore. E questo si riflette anche sulle sponsorizzazioni individuali, come quelle con Adidas e gli accordi con Gore-Tex: entrambi contribuiscono a un volume di business da multinazionale.
I personaggi affascinano oltre il campo. Mourinho è un egocentrico, ma a volte lo fa per attirare tutta l’attenzione su di sé e lasciare in pace la squadra. Guardiola non rilascia interviste individuali e questo ha aumentato il desiderio di conoscerlo meglio. La percezione che lascia è quella di un intellettuale inquieto, in cui si sovrappongono molte anime e molti interessi. Non meraviglierebbe vederlo, un giorno, Presidente della Catalogna. Guardiola parla 5 lingue (Mourinho “appena” 4): spagnolo, catalano, inglese, tedesco, italiano. Durante una conferenza stampa è riuscito a esprimersi in 4 di queste, correggendo l’interprete che, a suo dire, aveva tradotto male la sua risposta. Mourinho anticipa le domande dei giornalisti, li tiene in pugno, è mediaticamente sovversivo perché fa sempre ciò che non ti aspetti. Aver vinto tanto, tantissimo, non ridimensiona il pensiero di entrambi di dover dimostrare sempre di più. Sia Mourinho che Guardiola sentono l’obbligo di vincere a tutti i costi e vivono le contraddizioni di non potersi rilassare, né accontentare, mai.
Ne abbiamo parlato anche con Giuseppe Catalano, Company Secretary and Head of Corporate Affairs per Assicurazioni Generali. Da manager, nonché da esperto di calcio abbiamo voluto approfondire alcuni aspetti legati ai due allenatori che nessuno chiama “mister”. Perché sono molto di più.
Parliamo di Guardiola e Mourinho manager: quali qualità di leadership, gestione delle risorse umane e capacità strategiche intravedi nell’uno e nell’altro e in quali contesti aziendali vedresti bene uno piuttosto che l’altro?
Purtroppo sono due allenatori (ma se si sentissero chiamare “allenatori” non sarebbero forse così contenti) per i quali non impazzisco. Riconosco ad entrambi grandi capacità di leadership, soprattutto per Mourinho, che ha peraltro il deficit di non essere stato un grande giocatore, cosa che negli spogliatoi conta molto. Tecnicamente Guardiola ha un’impronta di gioco più caratterizzante mentre il portoghese è più bravo a disinnescare le armi avversarie e ad adattare il suo credo alle situazioni contingenti. Ma, se quest’ultimo non fosse stato riconosciuto come leader, uno come Eto’o non si sarebbe messo a fare il terzino per lui. Due ottimi candidati capi di HR, con spiccate doti di marketing e commerciali. Ma alla cassa della mia azienda (o quanto meno al controllo dei costi) metterei qualcun altro.
Entrambi guadagneranno, grosso modo, 25 milioni a stagione. In tre anni le due squadre di Manchester spenderanno 150 milioni solo per l’ingaggio degli allenatori (un record). Eppure si tratta di una città non di primissimo piano, in Europa. Essere manager in una città a misura d’uomo (per te che hai lavorato a Santeramo, a Fabriano), è un vantaggio? E cosa ha portato, a tuo parere, questa città al centro del business sportivo?
“Paragone interessante. Manchester è sempre stata una capitale del calcio come Fabriano lo è stata dell’elettrodomestico e Santeramo, tra mille difficoltà, lo è ancora del mobile imbottito. Da altro punto di vista, il paragone non si pone. A Manchester il calcio è drogato dai profluvi di danaro che arrivano. Il paragone, semmai, potrebbe farsi con il Mourinho di Oporto, che arriva a vincere la Champions o con il Ranieri di Leicester. Ecco, lavorare in una società leader del proprio mercato che ha sede in un posto decentrato (penso non solo a Fabriano e Santeramo, ma anche ad Agordo, Alba e così via) vuol dire vincere la Champions ogni giorno”.
Un dato interessante: Guardiola parla 5 lingue, Mourinho quattro. Entrambi affermano, seppur in maniera diversa che “chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. Vale anche per i manager di azienda? Cosa possiamo imparare da loro due?
“Ormai ai manager sono richieste sempre più capacità organizzative e doti di leadership piuttosto che qualità specifiche anche in funzioni “tecniche” come quella legal-societaria. Penso che Guardiola e Mourinho abbiano tutte quelle “soft skill” necessarie per un manager moderno. Un altro maestro di questo genere, un vero precursore è stato Julio Velasco, che peraltro ha una formidabile cultura generale. Le aziende, come le squadre di calcio, sono ormai un coacervo di tante etnie e diversità: per farle funzionare devi avere un indirizzo chiaro e riconoscibile, che sia il guardoliano tikitaka o il pressing asfissiante del Mou”.
La tua esperienza personale ti ha portato da Natuzzi a Indesit, fino a Generali: ti sei ispirato o ti ispiri a qualche coach del mondo sportivo? Se sì chi? Se no, cosa ruberesti a Guardiola e cosa a Mourinho?
“Nella mia bio su twitter c’è una frase di Conte detta ai giocatori nel primo allenamento dopo il sorpasso della Juve al Milan di Allegri. La capacità di grandi allenatori come questi è riuscire a tirare fuori il meglio dalle proprie risorse, motivandole e fornendo loro una precisa idea di gioco collettivo attraverso il confronto continuo. E poi c’è un altro aspetto fondamentale: riuscire a capire chi può darti quel qualcosa che altri non potrebbero darti. Un fuoriclasse da questo punto di vista è stato Vittorio Merloni, della cui scomparsa ho saputo poco prima di questa intervista. Ecco, lui, sono sicuro, sarebbe stato un ottimo CT della Nazionale”.
I due allenatori che hanno segnato gli anni 2000, Guardiola e Mourinho, probabilmente sono i due leader più interessanti del calcio moderno, che si ritroveranno a guidare le due squadre di Manchester. Ora si ritroveranno l’un contro l’altro, in quella che non per niente viene descritta come la città del calcio e in cui il calcio rappresenta la principale attrattiva turistica. Una città che con l’arrivo di entrambi sembra fare quasi un passo decisivo verso la consacrazione tra i principali centri d’Europa. La verità, probabilmente, è che se la rivalità Mourinho-Guardiola non rappresentasse una «narrazione» estrema, niente giustificherebbe i loro smisurati compensi. Forse sarebbero stati più adatti a ruoli invertiti, e questo affascina ancora di più per capire se, al di là del compenso, José e Pep riusciranno a riscaldare i cuori dei rispettavi tifosi sposando i valori dei club.
Mourinho e Guardiola si affronteranno in una Premier League sempre più ricca che concentra molti altri coach di valore (Klopp, Wenger, Pochettino, Bilic, e ben sei italiani tra i quali Ranieri, il campione in carica e Antonio Conte, attuale CT della nazionale): in un momento, quindi, che accentua il privilegio di cercare la soluzione della loro rivalità – o la sua definitiva sospensione – nella Terra Madre del football. Ma il privilegio è anche inverso, perché l’Inghilterra assisterà a un confronto – qualunque ne sia l’esito – unico e irripetibile; e in questo senso sembrerà davvero che per un attimo l’antico stemma di Edoardo III – con Mourinho e Guardiola nella stessa città – possa ricomporsi e risplendere. In un libro avvincente in uscita a settembre (Baldini&Castoldi), Paolo Condò equipara i due coach ai Duellanti di Ridley Scott. Analogia efficace, sia per la contrapposizione tra i due ufficiali di età napoleonica (Armand D’Hubert -Keith Carradine, «algido» e «nobile» come Guardiola; Gabriel Ferraud- Harvey Keitel, «orgoglioso» e «sanguigno» come Mourinho), sia perché è il secondo a provocare il primo, a trascinarlo «nel fango» di un conflitto amorale che spezza ogni codice. Non c’è dubbio che anche l’attuale ricongiungimento a Manchester sia stato cercato da Mourinho e subìto da Guardiola. A quanto pare l’«azzurro-cielo» del City ha già subito in età moderna un tentativo di riconversione demoniaca.
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