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Il gap di produttività? Un monito per relazioni industriali e Governo
In Italia la produttività del lavoro è ferma da una decina di anni. È questa, sostanzialmente, la fotografia scattata dall’Istat con il Report “Misure di produttività” diffuso durante l’estate scorsa. La produttività, definita come rapporto tra output generato e quantità di lavoro utilizzato, è una delle principali determinanti per la crescita dell’economia italiana. Per tale […]
In Italia la produttività del lavoro è ferma da una decina di anni. È questa, sostanzialmente, la fotografia scattata dall’Istat con il Report “Misure di produttività” diffuso durante l’estate scorsa.
La produttività, definita come rapporto tra output generato e quantità di lavoro utilizzato, è una delle principali determinanti per la crescita dell’economia italiana. Per tale ragione, il monito lanciato dall’Istituto di statistica non dovrebbe essere ignorato dalle forze sociali del Paese che, anzi, dovrebbero cogliere la sfida del rilancio dell’efficienza del sistema produttivo, per riaffermare il loro ruolo da attori protagonisti nella determinazione delle condizioni di lavoro.
Innanzitutto, in uno scenario economico sempre più volatile e imprevedibile, è necessario che il sistema di relazioni industriali garantisca una effettiva tutela del potere d’acquisto delle retribuzioni dei lavoratori attraverso l’allineamento tra salari e produttività. Come evidenziato dal Primo rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva, nel periodo 2012-2014, l’aumento medio dei minimi tabellari definiti dai CCNL si è attestato attorno al 6,8%, con un picco del 9,16% ed un minimo del 3,90%. Ciò a dimostrazione di una totale assenza di coordinamento tra performance economica del Paese (spirale inflattiva negativa o bassa, elevata disoccupazione, crisi aziendali, frequente ricorso agli ammortizzatori sociali) e contrattazione salariale nazionale.
Più di recente, la nota redatta dal Centro Studi di Confindustria il 3 ottobre 2015 ha posto l’accento sulla cosiddetta “questione salariale”, rimarcando l’esigenza di una più stretta correlazione tra la dinamica delle retribuzioni e quella della produttività misurata in azienda, al fine di calmierare il costo del lavoro e recuperare, di conseguenza, margini di competitività.
La stagnazione della produttività è un tema ben noto anche al Governo, il quale, a breve, sarà chiamato a dare il proprio contributo. La Legge di Stabilità per il 2016 potrebbe rappresentare l’occasione per definire tutti quegli interventi che, in via diretta, incidono sull’efficienza del sistema produttivo (facilitare il progresso ed il ricambio tecnologico, sostenere le attività di ricerca e sviluppo, promuovere investimenti in capitale umano), e per rifinanziare le misure di agevolazione fiscale che incentivano il collegamento tra salario e produttività.
Nel periodo 2008-2014, la disciplina normativa inerente la detassazione della retribuzione d’efficienza ha subito una continua evoluzione: dall’accesso libero al beneficio (2008), alla previsione della necessaria presenza di un accordo decentrato (2011), fino al D.P.C.M. del 22 gennaio 2013 che ha fissato requisiti precisi per l’ottenimento dello sconto fiscale, affinché si evitasse il proliferare di “accordi-fotocopia” dalla dubbia portata in termini di produttività. Sia lo stanziamento economico, che la platea di riferimento si sono mano a mano ridotti. Per l’anno in corso, invece, la misura non è stata rifinanziata (il MEF ha chiarito che le risorse stanziate per l’anno 2015 dalla Legge di Stabilità 2013 sono a copertura di eventuali erogazioni corrisposte nel mese di dicembre 2014, le cui relative imposte sostitutive sarebbero versate nel mese di gennaio 2015), determinando, di fatto, un impoverimento delle retribuzioni reali dei lavoratori.
Al di là di ogni buona intenzione, l’Esecutivo non sembra essere disponibile a lunghe attese per un eventuale accordo delle associazioni di rappresentanza sul modello contrattuale che valorizzi la contrattazione di produttività.
Non c’è tempo per stare fermi. La sfida della produttività o induce le Parti Sociali ad innovare radicalmente le relazioni industriali (a livello d’azienda o di territorio) in ottica partecipativa, per la gestione di processi lavorativi che la “grande trasformazione del lavoro” ha reso sempre più automatizzati, oppure sarà l’Esecutivo – unilateralmente – a stabilire le regole delle relazioni industriali in funzione di crescita, con la legge sul salario minimo. Con tale provvedimento, da un lato le quote di salario definite dal contratto nazionale non sarebbero più a garanzia di una retribuzione equa, proporzionata e sufficiente, ma una determinazione convenzionale. Dall’altro, si amplierebbero gli spazi di intervento della contrattazione di secondo livello sulla materia retributiva. Inoltre, un salario minimo definito per legge (presumibilmente fissato a livelli più bassi rispetto a quelli dei CCNL) renderebbe più conveniente per le aziende la non applicazione della contrattazione nazionale che verrebbe, in buona parte, “svuotata” del contenuto economico.
Se lo scenario evidenziato rischia di comprimere ancor più l’azione e il ruolo che compete, nella tradizione italiana, al sistema di relazioni industriali, allora le Parti Sociali facciano la propria parte: agiscano con coraggio e con consapevolezza verso la definizione di un patto orientato alla crescita della produttività e del salario reale dei lavoratori.
(Articolo inedito a firma di Michele Tiraboschi e Filippo Pignatti).
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