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Il lavoro è andato in corto (ma solo in video)
Short on Work nasce cinque anni fa presso la Fondazione Marco Biagi come programma di ricerca interdisciplinare nell’ambito di un dottorato sul lavoro e l’impresa dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Abituati a osservare il lavoro attraverso le nostre discipline – il diritto, la teoria dell’organizzazione, l’economia, la sociologia, la psicologia – a un certo […]
Short on Work nasce cinque anni fa presso la Fondazione Marco Biagi come programma di ricerca interdisciplinare nell’ambito di un dottorato sul lavoro e l’impresa dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Abituati a osservare il lavoro attraverso le nostre discipline – il diritto, la teoria dell’organizzazione, l’economia, la sociologia, la psicologia – a un certo punto ci siamo chiesti come lo vedevano e lo rappresentavano osservatori “non scientifici”, in primis i registi e i documentaristi.
È venuta così l’idea del global short-video contest on contemporary work (www.shortonwork.org), il nostro “razzo segnaletico”: il concorso dice “siamo qui, mandateci i vostri lavori, ci interessa farli dialogare con le nostre idee sul lavoro”. Sollecitiamo e raccogliamo materiale da tutto il mondo; in quattro anni abbiamo raccolto oltre 300 video, più del 60% ci sono arrivati dall’estero, sono rappresentazioni audiovisive del lavoro contemporaneo, di breve durata (max 15 minuti), rigorosamente sottotitolate. Noi le selezioniamo, le archiviamo, e ne facciamo oggetto di analisi “scientifica”.
Decisive sotto questo aspetto sono le interlocuzioni stabili con i più importanti archivi audiovisivi nazionali sul lavoro e sull’impresa, Aamod (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico) e Anci (Archivio Nazionale del Cinema di Impresa – Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia), e le collaborazioni con università e centri di ricerca internazionali che si occupano di visual social sciences.
Così come decisivo è stato l’incontro con la sociosemiotica di Landowski e la progressiva esplorazione delle concezioni, dei metodi e delle esperienze internazionali di video-research. Lo facciamo nel corso dell’anno, parallelamente all’organizzazione del concorso, attraverso PhD seminars e attraverso convegni internazionali. Ne abbiamo due all’attivo, dedicati all’elaborazione di uno sguardo interdisciplinare e crossmediale sul lavoro contemporaneo e sulle sue trasformazioni.
L’ipotesi fondamentale del nostro progetto è che la produzione contemporanea di opere audiovisive dedicate al lavoro sia capace di cogliere in maniera originale le connotazioni attuali del lavoro e le trasformazioni che lo hanno interessato negli ultimi decenni. In linea con questa ipotesi, utilizziamo il nostro archivio come un repertorio significativo delle idee del-e-sul lavoro presenti oggi nell’immaginario di diverse culture. Non si tratta di un repertorio statisticamente rappresentativo: molte opere rappresentano mestieri inconsueti, insoliti, in qualche modo fuori dall’ordinario, mentre sono sottorappresentati i mestieri più normali e ancora oggi più diffusi (operai, impiegati, dirigenti, dipendenti della pubblica amministrazione e così via).
La fabbrica, per esempio, una delle realtà su cui maggiormente si è concentrata l’attenzione delle discipline economiche e sociali nel corso del novecento ed è quasi assente nelle opere in archivio. Ciò da un lato rimanda alla questione della difficile rappresentabilità di certi mestieri, e in particolare alla difficoltà di filmare le persone al lavoro nelle fabbriche e negli uffici; ma d’altro canto attesta ciò che i filmakers ritengono meritevole di rappresentazione, e quindi le connotazioni del lavoro che si vanno accreditando nella società globale.
Come cambia dunque il lavoro?
Il nostro archivio restituisce alcune tensioni, distinte ma interdipendenti, che possono essere viste come assi o direzioni di cambiamento. La prima è quella tra lavori del passato opposti a lavori dell’oggi e del futuro, vecchi lavori (il barbiere, il tipografo, il liutaio) opposti a nuovi lavori (lo start upper, il professionista free lance, il co-maker). La seconda è quella tra il lavoro knowledge intensive (l’analista economico, il giornalista scientifico, l’astrofisico) opposto al lavoro manuale (lo spazzino, l’apicoltore, il vasaio). Una terza tensione è quella tra il lavoro come questione individuale opposto al lavoro come questione collettiva.
Nella maggior parte dei video l’individuo singolo è il principale espediente narrativo, in quanto protagonista esclusivo del lavoro, mentre manca o recede la dimensione collettiva del lavoro, così come concepita ed esperita nel corso del Novecento. La “nuova collettività”, quella del coworking, della social collaboration, delle communities di condivisione di saperi e competenze, è infatti di tutt’altra natura: non è una formazione sociale a difesa degli interessi comuni di una classe di lavoratori nei confronti dei datori di lavoro, ma piuttosto un’infrastruttura relazionale distribuita su cui il singolo può progettare una traiettoria personale di affermazione professionale.
In questo risiede il valore dell’analisi interdisciplinare e crossmediale del lavoro: essa motiva la diffidenza nei confronti delle narratives semplicistiche con cui si tematizza oggi il lavoro, e offre spunti interpretativi più promettenti, e conseguentemente più utili anche per un’efficace regolazione organizzativa e giuridica del lavoro.
[Credits immagine: nativaform.it]
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