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Il recruiter che scommette sulla maglia giusta
È difficile portarsi a casa un giocatore che ha già firmato un contratto con un’altra società, che magari poi lo ha pure “blindato” con regole d’ingaggio pazzesche. La stessa cosa vale per quel manager che ha appena cambiato lavoro. Perciò il fattore tempo, nel mondo del recruiting come nel mondo dello sport, è importantissimo. Ma […]
È difficile portarsi a casa un giocatore che ha già firmato un contratto con un’altra società, che magari poi lo ha pure “blindato” con regole d’ingaggio pazzesche. La stessa cosa vale per quel manager che ha appena cambiato lavoro.
Perciò il fattore tempo, nel mondo del recruiting come nel mondo dello sport, è importantissimo. Ma se è vero che il tempo non esiste, allora noi possiamo costruirci il nostro tempo.
Solo se siamo in grado di indirizzare le trattative, se siamo presenti anche quando non ci siamo, se qualcuno ci sta ad aspettare, solo così non saremo costretti ad essere al momento giusto nel posto giusto, a fare quell’offerta, paletta in mano, tra tante offerte. Solo così potremmo avere la presunzione che se non siamo ancora presenti all’asta, questa non si farà.
I giocatori sono come i candidati più appetibili, e amano essere corteggiati. Non amano proporsi, non solo per non perdere il potere negoziale che deriva dall’essere cercati, ma per vanità ed orgoglio. Dobbiamo essere presenti anche al corteggiamento che questi stanno avendo con le altre squadre. Dobbiamo essere il terzo incomodo che aleggia.
La nostra squadra, il nostro prestigio, la nostra energia e gli obiettivi che ci poniamo devono essere presenti a quel corteggiamento, dietro le quinte. In questo modo recuperiamo tempo, dilatiamo il tempo della trattativa e quindi otteniamo più tempo per noi. Quel tempo non sarà vuoto di informazioni ma magicamente ci arriveranno rumors, anticipazioni, chiacchere e pettegolezzi.
Mi occupo di recruiting ma sono stata una giocatrice di quelle vanesie. Ci sono rimasta anche un po’ male quando le telefonate, alla veneranda età di 36 anni e cento acciacchi, hanno iniziato a scarseggiare. Non mi è mai piaciuto propormi ma in alcuni casi l’ho fatto. Se dobbiamo paragonare il mercato degli sportivi a quello del lavoro, è interessante anche pensare a perché qualche volta mi sono proposta.
In un caso, la società sportiva rappresentava un’eccellenza del mio territorio di origine. Indossare la maglia della mia città, rappresentare la mia città e far parte di quel gruppo mi avrebbe resa orgogliosa, per questo l’ho fatto. Non mi aspettavo nulla dal punto di vista economico, non mi interessava. Volevo fare quell’esperienza da ultima in mezzo ai big. In un altro caso, anni dopo, volevo giocare con quella palleggiatrice, volevo mettere in pratica quello che sapevo fare anche grazie a una compagna competente e talentuosa, volevo potermi esprimere con facilità, pensando alla squadra come ad un elemento che facilita e non una zavorra.
Dalla maturità fino alla vecchiaia, non mi sono mai più proposta, e anche questo mi fa riflettere. Forte del mio nome, di quello che negli anni avevo già dimostrato, rispondevo alle telefonate, andavo a vedere di cosa si trattava, molte volte davo pure l’illusione di aver scelto, non per strategia, ma perché li per lì qualcosa di buono trovavo sempre; mi stuzzicava il cambiamento in sé. Poi, mente fredda, prima di decidere veramente, sapendo che quella società lì, quella alla quale avrei detto di si subito, cercava una banda, trovavo il modo di posticipare e intanto gettare qualche seme di chiacchiericcio.
Per me valevano alcuni elementi nella scelta, ma possono essere tantissimi i motivi per cui si sceglie una maglia. Bisogna però che qualche motivo ci sia e, per il bene della società stessa, sarebbe buona cosa fosse diverso dall’evitare di rimanere senza squadra.
8 fattori di un buon ingaggio
Provo a fondere le mie esperienze sportive con quelle professionali per indicare alcuni degli elementi che possono determinare la buona riuscita del tentativo di far entrare in squadra il giocatore adatto agli obiettivi. Cerco di immaginarmi non più recruiter, ma ancora parte di qualche società sportiva:
- Essere una scelta conosciuta e appetibile sotto diversi punti di vista, essere la maglia che molti vorrebbero indossare.
- Avere degli obiettivi chiari e un adeguato budget.
- Riconoscere i giocatori migliori per noi, non correre dietro a quelli che sanno vendersi meglio o a quelli che hanno fatto bene in squadre lontane anni luce dalla nostra cultura e dal nostro modo di giocare. Quindi dobbiamo saper leggere la nostra cultura, capire in quale modo giochiamo o vogliamo giocare.
- Investire tempo e denaro nel seguire la crescita dei giovani anche fuori dalla nostra società, osservare i talenti e sapere cosa fanno per migliorarsi.
- Dimostrare nei fatti la solidità. Nel mondo della pallavolo da cui provengo ci sono troppe società-meteora che comprano i diritti per accedere ai campionati di vertice, fanno squadre pseudostellari (più spesso un’accozzaglia di vecchie glorie e giovani di poco costo e scarse speranze, mal guidati) e tempo di un paio di stagioni spariscono.
- Mantenere ciò che promettiamo: le prime chiacchere riguardano proprio le promesse non mantenute. Se passa il concetto che di noi non ci si può fidare, è finita.
- Condurre trattative “furbe”, adeguate al giocatore che abbiamo davanti. Saper leggere nei rapporti di forza pare essere al contempo una competenza di base e un miraggio per molti di quelli che sono seduti a questi tavoli.
- Annusare: quando la concorrenza è di qualità, sono le piccole cose a fare la differenza. Alcune sono apprezzate da tutti come la trasparenza, l’armonia dello spogliatoio, altre sono personalissime, diverse e poi cambiano pure nel tempo. Bisogna capire cosa il giocatore o la giocatrice apprezza anche attraverso una rilettura della storia sportiva, personale, delle sue scelte precedenti e attraverso una conoscenza dei suoi valori. E poi avere un po’ di sano fiuto.
Per me, comunque, valeva solo questo: a parità di condizioni, volevo un allenatore giusto, uno che non facesse sconti a nessuno, che facesse sentire al contempo tutti uguali e ciascuno speciale.
Al tavolo della trattativa metteteci pure lui, per favore.
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