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Inclusione lavorativa, la denuncia di Ledha: “Non basta assumere un disabile, serve inserirlo davvero”
Parole che diventano fatti; parole che traducono a loro volta pensieri e persino stereotipi che minano opportunità di inserimento. Parliamo delle difficoltà che attanagliano l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Senza dimenticare tutte le sfumature del caso. Ledha sui disabili: non solo assumere, ma garantire inserimento Una delle prime realtà con cui ci siamo […]
Parole che diventano fatti; parole che traducono a loro volta pensieri e persino stereotipi che minano opportunità di inserimento. Parliamo delle difficoltà che attanagliano l’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Senza dimenticare tutte le sfumature del caso.
Ledha sui disabili: non solo assumere, ma garantire inserimento
Una delle prime realtà con cui ci siamo confrontati a fine gennaio è il Centro Antidiscriminazione Franco Bomprezzi di Ledha, un vero e proprio ufficio legale che si occupa anche della questione lavorativa. Dal Centro viene innanzitutto segnalata la difficoltà nel dimostrare di aver subito una discriminazione nella fase di avviamento al lavoro. Con la chiamata nominativa infatti risulta quasi impossibile dare prova di aver subito un’esclusione rispetto a valutazioni basate sulle caratteristiche professionali richieste.
L’intercettazione di eventuali inadempienze e scorrettezze da parte dell’azienda avviene quindi non tanto nella fase di accesso al lavoro, ma a inserimento avvenuto. C’è chi viene lasciato a casa prima del termine del periodo di prova o inserito in una collocazione inadeguata per la sua disabilità tanto da impedirgli di svolgere il lavoro. Ma per rispettare la legge non basta assumere una persona disabile: occorre garantirle anche un corretto inserimento.
Si parla frequentemente di barriere architettoniche, ma non meno subdole e invalidanti sono quelle derivate dai preconcetti relativi alla disabilità. Il più diffuso è quello che ritiene che una persona disabile non renda come una normodotata. “Quando ciò accade è in realtà perché i lavoratori con disabilità non vengono messi nelle condizioni di poter dare appieno il loro contributo: si tratta di una responsabilità dell’azienda”, spiegano i referenti del Centro. Attualmente si sta cercando di curare proprio l’adattabilità dei posti di lavoro. Un importante aiuto viene fornito dalla tecnologia e anche dalla figura del disability manager. Non tutte le aziende hanno però la possibilità di assumere questo tipo di figura; diverse puntano sul contenimento dei costi.
Poi veniamo a scoprire che tra uomini e donne con disabilità sono le donne che faticano maggiormente a trovare lavoro. Al contempo chi presenta una disabilità di tipo fisico incontra meno difficoltà ad essere assunto rispetto a chi ha una disabilità intellettiva, condizione tuttora bersagliata da numerosi pregiudizi difficili da scardinare. Non mancano esempi positivi, come nel caso di adulti e giovani con sindrome di Down, grazie anche al coinvolgimento di associazioni preparate sul tema. Ulteriore aspetto cardine è infine quello dell’età: più avanza e più risulta difficile trovare una collocazione.
Il panorama dell’inclusione lavorativa dei disabili
Riguardo agli ambiti che ad oggi assicurano più inclusione alle persone con disabilità ci sono quello dei servizi, della grande distribuzione (come ad esempio i supermercati) e dell’agricoltura sociale. Il mondo cooperativo resta sul podio dal punto di vista delle opportunità inclusive.
Un punto di riferimento è poi rappresentato dai tirocini. Sul tema abbiamo interpellato AFOL Metropolitana, azienda speciale consortile del territorio milanese che si occupa di formazione e lavoro. Reperire i dati non è stato facile visto il periodo di emergenza sanitaria da COVID-19, ma siamo riusciti a ottenere quelli degli ultimi tre anni.
“I tirocini sono sempre più richiesti dalle aziende e rappresentano un vero e proprio filtro attraverso il quale il tirocinante si forma direttamente sul luogo di lavoro”, spiega Rossana Bolchini, referente di area in ambito Disagio e Fasce Deboli. “Il tirocinio permette di inserirsi con gradualità nel contesto organizzativo dell’azienda, anche grazie alla figura del tutor, che fornisce al gruppo di lavoro buone prassi per la gestione delle diversità”.
Non mancano però le complessità: “Spesso non è la mansione a mettere in difficoltà il lavoratore disabile, ma le dinamiche che si instaurano nel suo gruppo di lavoro. Molto dipende anche dalla tipologia della disabilità. Oggi sappiamo che i lavoratori con disabilità psichica rappresentano più del 50% della popolazione disabile disponibile al lavoro. Per le aziende il ricorso al tirocinio rappresenta una grande opportunità in quanto consente di effettuare inserimenti mirati e seguiti da strutture competenti. Altro grande aiuto è la Dote Impresa per avere contributi, sia per i tirocini delle persone disabili sia ad assunzione avvenuta”.
Tirocini dei lavoratori disabili, strumenti o scuse per non assumere?
I tirocini dovrebbero rappresentare un prequel importante per l’ingresso al mondo del lavoro. Ma è così, o in alcuni casi rischia di tramutarsi in un’anticamera da cui non si esce mai? Abbiamo così raccolto la testimonianza, sempre dal territorio lombardo, di Antonio Bianchi, ingegnere nel lavoro e padre di Pietro, 22 anni, con sindrome di Down e tanta voglia di imparare mettendosi in gioco. Pochi mesi fa Pietro è approdato a un traguardo importante: l’assunzione a tempo indeterminato con contratto part time di 15 ore a settimana. Lavora come aiuto cameriere, attività che svolge con entusiasmo e attenzione, dopo aver fatto una formazione specifica. Il settore ristorazione è attualmente in stand by causa emergenza coronavirus; specifichiamo che l’intervista è stata fatta precedentemente.
Il percorso di Pietro per arrivare fino a qui però non è stato semplice. Spesso è stato reso aspro non tanto dalla disabilità intellettiva in sé ma dal modo in cui gli altri ne hanno dato restituzione. Parliamo di quell’insieme di servizi di collegamento al lavoro – la scuola stessa – che dovrebbero rappresentare la cornice a sostegno del quadro ma che invece, a causa di preconcetti, timori e a volte anche pigrizia, giungono paradossalmente a rinforzare ancora di più gli ostacoli.
Uno degli enti che funge da contatto tra le persone con disabilità e le aziende è il servizio di inserimento lavorativo, il quale presenta diverse denominazioni a seconda delle regioni. Si tratta di una funzione affidata alle cooperative. “Su questo versante molti di noi genitori hanno riscontrato un atteggiamento di giustificazionismo”, racconta Antonio Bianchi. “Complice anche il periodo di crisi economica, da parte di chi opera in questi servizi non sono mancate affermazioni del tipo: la situazione è problematica per tutti, come possiamo pensare di garantire lavoro anche a chi ha una disabilità?”.
Un altro tassello di riferimento in questo percorso a ostacoli è rappresentato dalla commissione della Legge 68/1999, che valuta se la persona con disabilità è impiegabile o meno in un contesto di lavoro e quindi inseribile nelle liste di collocamento: “Nel nostro caso abbiamo avuto riscontri positivi più da parte dei medici del servizio di neuropsichiatria che dalla scuola, la quale ha dato una restituzione svalorizzante puntando l’accento più su ciò che Pietro non era in grado di fare anziché sulle potenzialità. Di contro, è stata quella che poi ha individuato il contesto adatto per fare tirocinio”.
Spesso i genitori di ragazzi con disabilità lamentano il vuoto delle opportunità lavorative alla fine delle scuole superiori: è accaduto così anche nel vostro caso?
Più che con il vuoto noi abbiamo avuto a che fare con il protrarsi dell’esperienza di tirocinio, iniziata durante il percorso scolastico e andata oltre i tempi previsti. Per i giovani con disabilità il tirocinio diventa spesso, invece che un’opportunità, un limbo da cui non si esce più.
Ricordiamo che i tirocini sono sovvenzionati dal fondo regionale e che non risolvono l’alto numero delle persone disabili ancora alla ricerca di lavoro.
Dati scandalosi. Il problema è che ci siamo abituati a essi.
Parlando di disabilità intellettiva e inclusione lavorativa: qual è lo stereotipo con cui vi siete più spesso confrontati?
La società in generale pensa che chi presenta una disabilità intellettiva non possa lavorare e nemmeno pretendere di farlo. Si arriva a relegare la condizione al puro assistenzialismo, quando invece la realtà dimostra che le alternative sono fattibili.
Un vero e proprio pregiudizio: come si può affrontarlo nel concreto?
Nel panorama dell’imprenditoria è necessario investire nella conoscenza reciproca tra persona con disabilità e referenti dell’azienda. Questo permetterebbe di individuare in ciascun contesto lavorativo uno spazio adeguato, adottando anche strumenti che aiutino a svolgere al meglio la mansione. Penso, ad esempio, a quello della Comunicazione Aumentativa Alternativa nel caso delle disabilità intellettive. Fiducia e flessibilità sono i principali ingredienti per contrastare l’esclusione lavorativa.
Altri preconcetti incontrati sul fronte occupazione di persone con disabilità intellettiva?
Si crede che possano fare solo lavori di contorno o ripetitivi. Inoltre nei loro confronti c’è un atteggiamento diffuso di eccessiva protezione e controllo, volti all’annullamento del rischio. Quando diventano asfissianti, queste dinamiche creano gravi conseguenze sulla percezione di sé come persona capace di lavorare. Noi genitori, al contrario, abbiamo voluto costruire un percorso incentrato sull’autonomia. Questo significa per Pietro anche fare da solo il tragitto per arrivare al luogo di lavoro.
Tocchiamo un altro tema preoccupante. Da genitori e titolari di aziende ci è stato rivelato che figli e dipendenti con disabilità sul lavoro arrivano a manifestare abilità mai menzionate all’interno delle valutazioni utilizzate per la selezione, valutazioni scritte da referenti dell’ambito scolastico e anche sanitario, come neuropsichiatri e psicologi. Ci sono casi in cui queste figure sono arrivate addirittura a sconsigliare l’inclusione lavorativa di alcuni ragazzi con disabilità, valutati come inadatti. La realtà però ha dimostrato il contrario: sono stati assunti stabilmente, portando valore aggiunto all’azienda. Antonio Bianchi spiega:
Questo è l’ostacolo culturale più forte e grave da affrontare, perché inibisce a priori delle possibilità per la persona con disabilità. Spesso a creare censura sulle opportunità di inclusione lavorativa sono proprio coloro che dovrebbero promuoverle. Il contesto di lavoro reale, con colleghi che non ti considerano a priori un assistito, risulta spesso più motivante di altre situazioni da “palestra” che piacciono tanto a certi terapisti, ma che non rivelano le potenzialità autentiche della persona.
Pietro ora è assunto. I risvolti positivi che come famiglia avete toccato con mano quali sono?
Il rapporto con i colleghi e la continuità hanno permesso in lui una maturazione e una crescita. Questo anche grazie al contesto, che nei suoi confronti non ha mai dimostrato timori o diffidenza.
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