Istigazione alla delocalizzazione

Istigazione alla delocalizzazione. È un nuovo reato di cui si macchierà il Governo italiano se, come tutto lascia pensare, non interverrà prontamente segnalando alla EU la propria decisione (di cui l’EU può solo prender atto) di reintrodurre l’obbligatorietà di indicare il luogo dello stabilimento di produzione per i prodotti italiani, al contrario di quanto recepito con […]

Istigazione alla delocalizzazione. È un nuovo reato di cui si macchierà il Governo italiano se, come tutto lascia pensare, non interverrà prontamente segnalando alla EU la propria decisione (di cui l’EU può solo prender atto) di reintrodurre l’obbligatorietà di indicare il luogo dello stabilimento di produzione per i prodotti italiani, al contrario di quanto recepito con il nuovo Regolamento europeo.
Non credo si debba essere né grandi economisti, né grandi sociologi per capire che la disgregazione economica del nostro Paese nasce e si sviluppa fin dalle prime delocalizzazioni, iniziate purtroppo molti anni fa.
A poco a poco, uno-cento-mille-centomila e poi milioni di licenziamenti a catena hanno svuotato le tasche dei lavoratori-consumatori italiani e altrettanto a catena la crisi si è autoalimentata generando quella diminuzione dei consumi che solo negli ultimi anni sono scesi oltre il 20%.
E chi cade da più in alto, più male si fa.

Eravamo famosi nel mondo per la numerosità delle nostre pur piccole imprese, orgogliosi di essere la prima, poi seconda, nazione fra i paesi manifatturieri europei.
Proprio ieri sera Monti sembrava “godere” nel dire che la globalizzazione non la si può affrontare con, seppur giuste, inefficaci soluzioni. Non credo ci possa essere una sola persona intelligente che pensi di poter far fronte alla globalizzazione con dazi, lazzi e frizzi.
Certo è che senza far nulla, Paesi floridi con economie consolidate come la nostra dovrebbero essere capaci di soffrire, e anche tanto. Non si può più assistere alla perversa spirale in cui “una delocalizzazione tira l’altra” e ogni volta sono nuovi licenziamenti.
Ma siamo proprio sicuri che migliorino davvero le condizioni delle popolazioni in quei Paesi dove si tende a produrre di più, lá dove ci porta il costo basso con salari da 0.2 dollari all’ora? O invece non si arricchiranno ancor di più i soliti noti?

Come spesso ho occasione di dire: solo quando anche i poveri abitanti di zone depresse saranno considerati non più ” lavoratori” (da sfruttare per produrre al minor costo), non più “cittadini” (da sfruttare per farsi eleggere e poi fottersene) ma come potenziali “consumatori” (anch’essi da “sfruttare”, ma almeno affinché spendano e acquistino ciò che producono), allora, solo allora, la loro qualità di vita migliorerà. Solo perché ciò finirà per coincidere con l’interesse dei soliti noti. Ma almeno miglioreranno le condizioni di vita di coloro che oggi non mangiano neppure.

Lunga premessa, anche drammatica, per spiegare perché così non si può andare avanti.
Perché sono certo che alla fine, una sorta di spirito di sopravvivenza scuoterà gli italiani – sta già succedendo – i quali, prendendo coscienza e consapevolezza del problema, muteranno i propri comportamenti, tornando ad una sorta di “baratto”. Un baratto non di beni ma di posti di lavoro.
Cercheranno cioè di riequilibrare i propri acquisti a favore delle produzioni locali, beni o servizi che siano, in modo da mantenere ognuno il lavoro dell’altro, rifecondando quel giro economico che è alla base di qualsiasi stato. A me pare una visione quasi banale. Ma quale altra conclusione ci potrebbe essere? Certo non il continuare a farsi abbindolare dalle speranze iniettate dagli aghi di campagne elettorali di turno. Chiediamoci cosa debba fare un imprenditore che abbia un minimo di capacità di intraprendere, di prevedere scenari, di anticipare comportamenti: deve necessariamente predisporsi per ottenere il meglio quando ciò che ha previsto si verificherà. Deve prendere il suo “banchetto” e correre là, dove arriveranno in molti. Per essere nella migliore posizione quando quella mattina aprirà il mercato. E deve farlo prima possibile, perché quando un business lo fiutano tutti, non è più un buon business. Proprio come ora è ormai la delocalizzazione.

Ed ecco nascere il tanto chiacchierato “reshoring”. Io l’ho chiamata semplicemente rilocalizzazione ma, si sa, più esterofili e snob di noi italiani non c’è nessuno.
In fondo il primo imprenditore che ha delocalizzato, non è criticabile sul piano strettamente imprenditoriale. Il risultato almeno nel breve medio lo ha ottenuto. Magari anche i successivi mille, ma poi quando hanno iniziato anche le pecore – di cui l’imprenditoria italiana è piena – era già troppo tardi e nel frattempo la spirale avanzava. Ma come si fa a pensare che andiamo tutti là, a produrre a costi più bassi (tralasciamo per ora la qualità). Tutti lá per poi vendere qua: ma non ci siamo mai chiesti a chi potremmo vendere, a quel punto, se abbiamo licenziato tutti. Davvero difficile pensare che non riescano a capirlo.
Certo se si è un manager da multinazionale legato a bonus di breve periodo, allora vale il prendo e scappo e il problema non è più mio.

Lo stanno capendo in molti. E quelle che lo dovrebbero fare per prime sono le imprese che producendo marchi italiani rischiano più degli altri, sia la reputazione – un asset sempre più importante per il proprio Equity – sia per le ragioni appena descritte.
Del resto, sempre senza la pretesa di fare l’economista o il sociologo, sono convinto che l’unica forma di vera democrazia sia determinata dall’equilibrio fra produzione e consumi, ma all’interno di un territorio. Tribù per tribù. In un equilibrio mondiale.
E allora, quel buon imprenditore che avesse avuto in anticipo questa visione di futuro, e per questo avesse messo il “banchetto” nel punto giusto, avrà fatto un buon business per la sua impresa.
Non è un augurio, spero sia una visione.

Ovviamente ciò vale per ogni paese del mondo. Produrre dove si vende. È così banale.

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