Il 2020 per il turismo toscano doveva essere un anno di grandi numeri, giungendo a conclusione di un decennio di crescita progressiva, con annate prodigiose come il 2017 e il 2018 e una Firenze capace di aumentare le sue presenze del +50,8%, grazie al traino della domanda extra-europea (vedi rapporto IRPET sul Turismo in Toscana […]
A volte rientrano, anzi no: italiani all’estero, riforma contro il rimpatrio
Tra le poche ragioni per spingere giovani laureati e lavoratori a tornare in Italia c’erano le agevolazioni fiscali: le stesse che il Governo sta pensando di ridurre in modo drastico. Con quali conseguenze? Le testimonianze: “Volevo rientrare, ma con questa riforma sarà impensabile”
Ogni anno più di 100.000 persone, in media, lasciano l’Italia per cercare migliori opportunità professionali all’estero. È quanto riportano i dati ISTAT, aggiornati a febbraio scorso, secondo i quali, nel periodo compreso tra il 2012 e il 2021, gli italiani espatriati sono stati più di un milione.
Secondo il rapporto Migrantes 2023, gli italiani iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero) sono attualmente oltre 5,9 milioni, più degli stranieri residenti in Italia (cinque milioni), di cui 1,2 milioni hanno meno di 34 anni. Nel 2010 erano circa 4,1 milioni. In tredici anni sono aumentati di quasi due milioni. In termini di perdita di investimento, per il nostro Paese si tratta di 14 miliardi di euro all’anno andati in fumo (circa l’1% del PIL).
Numeri impressionanti, peraltro sottostimati, se si considera il fatto che non viene conteggiato chi si reca all’estero per periodi di tempo più brevi di un anno e chi decide di non registrarsi all’AIRE anche vivendo stabilmente fuori dall’Italia.
Negli ultimi anni il fenomeno sembra stia subendo una leggera inversione di tendenza, soprattutto dopo il trauma della pandemia di COVID-19: nel 2021 a espatriare sono stati il 22% di italiani in meno rispetto ai circa 121.000 del 2020. Si tratta però comunque di 94.219 persone che hanno lasciato l’Italia in un solo anno.
I motivi che spingono così tanti italiani a scappare sono noti e molteplici: la sfiducia nel futuro, un mercato del lavoro precario e poco dinamico (secondo i dati ISTAT 2023, i lavoratori italiani guadagnano circa 3.700 euro in meno della media dei colleghi europei), una classe politica poco lungimirante, un tasso di disoccupazione che supera il 20%, i salari in diminuzione rispetto agli anni Novanta a fronte di un costo della vita in continuo aumento.
Il Governo scoraggia gli italiani a emigrare
Chi torna ha pochi motivi per farlo. Uno di questi è di sicuro la fiscalità favorevole per chi vuole rientrare in Italia. Misura che ora il Governo vorrebbe però modificare per disincentivare gli italiani a lasciare il Paese. Tra i provvedimenti della Manovra già approvati in via preliminare dal CDM ce n’è infatti uno che sta facendo discutere molto: la stretta sulle agevolazioni fiscali esistenti per chi vuole rientrare in Italia.
Dal 2024, se la misura verrà approvata in via definitiva, cambieranno infatti le attuali agevolazioni e i bonus previsti per chi vuole rimpatriare, sostituiti da un nuovo regime di incentivi, che prevede un’importante limitazione ai requisiti di accesso. A essere esentati da queste modifiche sarebbero solo i ricercatori e i docenti universitari.
La misura che riguarda il cosiddetto “rientro dei cervelli” prevede diverse novità. Tra le più significative rientra di certo la modifica che riguarda i beneficiari (dipendenti e autonomi), che non saranno più i lavoratori con due anni passati all’estero, ma tutti i lavoratori con elevata specializzazione che hanno vissuto almeno tre anni all’estero.
La detassazione, inoltre, passa dal 70% (90% per chi decideva di rientrare in Italia e trasferirsi al Sud e per i professori e i ricercatori universitari) sull’IRPEF (imposta sul reddito delle persone fisiche) al 50% fino a redditi annui inferiori a 600.000 euro. E ancora: la durata delle agevolazioni passa da cinque anni con proroga di ulteriori cinque anni a soli cinque anni.
Come requisiti, la residenza all’estero passa da due a tre periodi di imposta precedenti, mentre l’impegno a rimanere in Italia passa da due ai cinque anni successivi. A questo si aggiunge l’obbligo a ritornare in Italia lavorando in un’azienda diversa da quella per cui si lavorava all’estero.
Si tratta di modifiche importanti che impatterebbero sulla scelta degli italiani di emigrare, ma con un effetto boomerang scoraggerebbero gli expat a tornare dall’estero, visto che le motivazioni per farlo sono già molto poche.
Stretta sugli italiani all’estero, è davvero un risparmio per lo Stato? I dati dicono il contrario
Il Governo sostiene di essere stato costretto a inserire questa misura per colpa dei soliti “furbetti” che se ne approfittavano e per i costi molto elevati per l’Erario. Nel rapporto sulle spese fiscali relativo allo scorso anno si legge infatti che questo strumento è costato 674 milioni di euro e a utilizzarlo sono stati circa 15.000 expat. Questi ultimi hanno goduto di una media di circa 45.000 euro di tasse non versate al Fisco. Uno sconto di certo notevole.
Uno studio pubblicato a giugno scorso dall’economista Giuseppe Ippedico su Lavoce.info mostra però come il rientro di accademici e lavoratori dall’estero incentivato dalle agevolazioni fiscali compensi le minori entrate derivate dalle esenzioni. I rimpatriati, quindi, pagano sì meno tasse, ma il fatto stesso che rientrino in Italia e le paghino qui anziché all’estero costituisce un valore aggiunto, che garantisce un certo contributo al gettito.
Inoltre, come spiega questo articolo dell’Osservatorio per i conti pubblici italiani, l’esodo di così tanti italiani verso l’estero sarebbe solo in parte legato a ragioni fiscali. Se l’Italia è il Paese che tra il 2002 e il 2016 ha avuto il più significativo fenomeno di emigrazione dei ricercatori universitari, il motivo risiede soprattutto nell’“instabilità dei posti di lavoro rispetto all’estero, con minori possibilità di contratti indeterminati nelle varie posizioni di carriera”, e al fatto che il “sistema universitario nazionale è considerato come poco trasparente e non basato sul merito”.
Fonti del ministero dell’Economia dichiarano di voler introdurre un periodo di transizione durante il quale gli sgravi finora in vigore sarebbero riconosciuti a chi decide di riportare la propria residenza anagrafica in Italia entro il 31 dicembre del 2023, così da evitare un effetto retroattivo della norma. Nella misura approvata dal Governo c’è però un aspetto che complica il quadro della situazione. Per far sì che il trasferimento sia valido, infatti, la nuova residenza in Italia deve essere attiva da almeno 183 giorni: in questo modo, chi è tornato in Italia dopo il 3 luglio si vedrà comunque applicati i nuovi regimi fiscali, con effetto retroattivo.
L’emorragia di giovani laureati non si ferma: da dieci anni ne escono più di quanti ne rientrino
“Penso che le modifiche che verranno introdotte non favoriranno il rientro degli italiani all’estero (‘cervelli’ lo trovo un termine antipaticissimo). Considerando che già ora è difficile riuscire a trovare un lavoro in Italia con una RAL che giustifichi il ritorno in patria”, dice Walter, 29 anni, da Parigi. “Tuttavia per alcuni ruoli si riusciva a compensare quel gap proprio grazie alle agevolazioni fiscali. Parlando con altri amici italiani che vivono e lavorano all’estero mi sembra di capire che molti non hanno intenzione di tornare, non solo a causa delle retribuzioni, ma anche per via degli ambienti di lavoro tossici che spesso ti rovinano la salute. Io personalmente a meno di trent’anni ho un lavoro come quadro full remote, 40 giorni di ferie all’anno, rimborso 100% delle utenze per internet e 50% dell’abbonamento per i mezzi pubblici. Non sarei mai tornato in Italia per guadagnare di meno e lavorare di più con le agevolazioni fino al 90% al Sud; figuriamoci ora”.
Non solo Walter: sono migliaia gli italiani e le italiane all’estero che avevano intenzione di tornare a breve in Italia e che hanno espresso profonda preoccupazione per le nuove norme. Sono nati così gruppi WhatsApp come Rientro Italia o Domande su casi specifici, a cui, in pochi giorni, si sono iscritte più di duemila persone. Giovani, coppie, famiglie: tutte persone diverse accomunate dalla volontà di lasciare il Paese alla ricerca di un futuro migliore all’estero. Le loro istanze sono confluite anche in una petizione, che ad oggi ha raccolto oltre 7.500 firme.
Anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 30 ottobre scorso, in occasione dell’incontro con AIRC per “I giorni della ricerca” al Quirinale, ha sottolineato la drammaticità del fenomeno.
“I nostri giovani ricercatori sono bravi. […] Rappresentano un orgoglio per il nostro Paese, oltre che un motore per l’Europa. Purtroppo sappiamo che le nostre risorse globalmente destinate alla ricerca scientifica sono limitate rispetto agli standard che dovremmo raggiungere. Constatiamo anche – ha aggiunto – che tanti giovani vanno all’estero e vi rimangono, non perché non amerebbero lavorare in Italia, ma perché da noi talune condizioni, economiche e professionali, sono poco aperte, meno competitive.”
I dati ISTAT confermano che la composizione degli expat è costituita soprattutto da giovani molto formati: “Un emigrato italiano su tre ha un’età compresa tra 25 e 34 anni: in totale 31.000, di cui oltre 14.000 hanno una laurea o un titolo superiore alla laurea”.
Inoltre, il saldo migratorio dei laureati (ovvero la differenza tra espatriati e rimpatriati) è molto negativo, a testimonianza del fatto che la maggior parte degli expat non torna. Nel corso del decennio 2012-2021, infatti, sono stati 120.000 gli italiani con una laurea andati all’estero, mentre i laureati tornati in Italia sono stati poco più di 41.000: “La differenza tra i rimpatri e gli espatri dei giovani laureati è costantemente negativa e restituisce una perdita complessiva per l’intero periodo di oltre 79.000 giovani laureati”.
“Con la riforma non rientro: il Governo ci colpisce anche se siamo all’estero”
Jacopo è uno di questi. Ingegnere biomedico, ha 34 anni e ha vissuto tre anni e mezzo a Malta, dove lavorava per un’azienda americana nella campo della ricerca e sviluppo.
“Lì c’era molta più flessibilità e meritocrazia che da noi. Mi sono stati dati riconoscimenti e promozioni molto più in fretta. Dopo due anni avevo già ottenuto una posizione da senior, cosa impensabile in Italia. Inoltre – spiega – non c’era quella competizione tossica che si respira qui”. Jacopo non sarebbe voluto tornare in Italia, ma è stato costretto: “Avevo altre opportunità all’estero, che però sono sfumate a causa della pandemia”. Poche settimane fa si è licenziato da un’azienda torinese per cui ha lavorato due anni: “C’era una grande inefficienza generale, la mentalità lavorativa era provinciale e chiusa e le persone che lavoravano lì dentro da vent’anni n non si erano mai aggiornate”.
Tra poco inizierà a lavorare per un’azienda straniera, sempre dall’Italia, ma in modalità smart working al 100%: “Se non mi dovessi trovare bene, sarei pronto ad andarmene di nuovo. Neanche gli incentivi fiscali mi convincerebbero a tornare: provo molta sfiducia verso il nostro Paese. Il Governo mette delle pezze sul breve termine, ma non esistono soluzioni sul lungo termine”.
“Lavoro all’estero da sette anni e stavo pensando di rientrare in Italia” racconta Laura, 31 anni. “Il mio contratto sta per scadere e l’azienda per cui lavoro si stava mobilitando per agevolare lo spostamento nel 2024. Con questa riforma, oltre allo scarsissimo preavviso e al fatto di non rientrare nelle categorie ultra-specializzate (che includono solo ricercatori e accademici) dovrei farmi assumere da una nuova azienda (come se trovare lavoro in Italia fosse facile) e rimanerci per cinque anni per evitare sanzioni. Da quanto scrivo – aggiunge – è facile intuire che nel 2024 rientrare in Italia sarà impensabile e le probabilità che rimanga senza lavoro sono alte. È incredibile: il Governo attuale riesce a colpire indirettamente lavoratori nella mia situazione senza che neanche siano sul suolo italiano”.
“Per quanto riguarda il cosiddetto ‘rientro dei cervelli’, io avevo vari amici che me ne avevano parlato e che pensavano di usufruirne”, dice Gaia, 26 anni, da Bruxelles. “Io stessa ho pensato che ne vorrei usufruire tra un po’ di anni. Di certo se lo tolgono non fanno che scoraggiare persone come me, che già faticherebbero a riadattarsi ai salari più bassi e alla qualità della vita minore in Italia. Nel mio caso – continua – ho sempre faticato a trovare un lavoro serio in Italia, che fosse ben retribuito, in cui il contratto corrispondesse davvero alle mansioni da svolgere, per non parlare dei benefit. In Belgio, dove vivo, i voucher per i pasti ma anche per gli acquisti sostenibili, e il lavoro ibrido, sono tutte normalità. L’unica pecca è che le tasse sono davvero alte, ma forse, proprio per questa ragione, gli incentivi fiscali previsti dal rientro dei cervelli rappresentavano uno dei pochi vantaggi esistenti nel rientrare in Italia”.
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