Intervistiamo Andrea Zanzini, coordinatore dell’incubatore di impresa per le aree interne: “Portare nei territori ciò che ancora non c’è”.
Il lavoro non è più Milano
Che cosa è emerso dal panel “Milano è il lavoro?” del festival Nobìlita 2024? Che il capoluogo lombardo sta cambiando proprio a causa di ciò che in passato ha costituito la sua identità. Gli esiti del confronto tra l’imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, il sindacalista Antonio Verona, l’influencer Stefano Maiolica e la consulente Maria Cristina […]
Davanti ai partecipanti schierati per il panel il miracolo di Milano dura poco, in pensieri, parole, opere e omissioni.
La domanda: “Milano è ancora il lavoro?”. È sottile, fruga nei presupposti di tante certezze acquisite, e se la si pone a un milanese – di nascita o di adozione poco importa – sulle prime si ottengono solo risposte affermative: ma certo che Milano è il lavoro, è qui che le cose succedono, con le aziende che contano e i servizi che funzionano.
È questione di minuti, però. Qualche giro di frase e la situazione prende un’altra piega. A chi risponde viene in mente qualcos’altro, un pensiero intrusivo che corruga la fronte e affonda nella gola, e rallenta le parole. A proposito di parole: a lavoro se ne affianca un’altra, opportunità. Milano ne dà molte, rispondono, a differenza di tante altre città.
Un’altra spinta dal moderatore. Continuando a parlare emergono gli aneddoti personali – le opere – e non sorprende nessuno che riguardino tutti il lavoro, come se a Milano non si parlasse d’altro. Quasi tutte le omissioni invece riguardano la vita oltre l’ufficio: “Alle 20 devo scegliere se allenarmi o mangiare, se correre o fare la spesa”, perché a Milano “non si possono mai fare entrambe le cose”. Omettere significa togliere – e provare a mentire – prima di tutto a se stessi.
Da lì in poi, il discorso cambia. La retorica scompare, o quasi.
Così abbiamo scoperto che il lavoro, a Milano, è qualcosa di ben diverso da ciò che se ne dice.
Milano cambia se cambia il lavoro: Antonio Verona e Stefano Maiolica
Sul palco di Nobìlita ci sono un imam, un sindacalista, un influencer, una consulente e una dipendente comunale. Dai loro tre quarti d’ora di confronto emerge il volto di una città che si guarda allo specchio e non si riconosce.
All’inizio, dicevamo, tutto rose e fiori. La prima incrinatura arriva con un’osservazione geografica: “Sapevate che Milano non ha una piazza Roma? E neanche una via Roma. Esiste Porta Romana, sì, ma è un margine: serve a entrare o a uscire”.
Che la seconda città d’Italia viva una rivalità unilaterale con la prima non è un segreto: a dirlo è Antonio Verona, della CGIL. Che prosegue: “A Roma c’è bellezza e a Milano si lavora; prima degli ultimi 15 anni, diciamolo, questa non è stata una bella città. Ma oggi al lavoro si chiede qualcosa di diverso rispetto a ciò che si chiedeva prima (sicurezza sociale e reddito, possibilmente tutta la vita). Oggi si chiede di lavorare in un bell’ambiente, che si concili con la vita sociale. E Milano sta cambiando proprio attraverso il lavoro”.
Viene detto che i numeri di chi lavora nel capoluogo lombardo non sono mai stati così alti: 1.507.000 persone, ma ci versano i contributi in 2.500.000. Molti lavorano fuori, dicono con il tono di chi confessa un peccato; Milano vorrebbe ridere del south working, ma non riesce a smettere di temerlo (e nella discussione c’è chi prova a scomunicare chi è “tornato giù” e si è “trovato male”). Del resto, aggiunge Verona, “Per la prima volta da quando mi occupo del mercato del lavoro, a governare è l’offerta, e non la domanda”. Il cambiamento milanese passa anche da qui.
Stefano Maiolica, influencer più noto con il nom de post “unterroneamilano”, incarna più di tutti lo spirito dei nuovi milanesi. All’inizio difende il suo luogo d’elezione, compassato, si concentra sui pro, rimane artificiosamente lontano dai contro. Poi il discorso gira ed emerge tutto il resto: “Quando a Milano vai a fare aperitivo con un amico e gli chiedi come va, ti parla del lavoro, come se fosse l’unica argomentazione che si può affrontare. Milano per me è tanto lavoro, ma è un bene? Come quando ti alzi dalla scrivania alle 18 e vieni guardato male; parliamo di mobbing e di burnout come se fossero cose belle, a momenti. E poi i costi: per restare qui e ricevere le opportunità di questa città devo anche investirci moltissimo. Milano ti dà, ma ti toglie anche tanto”.
Maria Cristina Bombelli e la città prigioniera del lavoro
“La conciliazione non è più un argomento da donne, ma anche da single e uomini. Sono cambiate le aziende, prima c’era la scrivania, la piantina, la foto dei figli; oggi non più, bisogna arrivare presto per prendere la scrivania. Gli spazi costano, ci sono più persone che scrivanie. E da qui i giovani si chiedono: perché andare in ufficio se posso restare a casa?”
Maria Cristina Bombelli, ex docente, consulente e fondatrice di Wise Growth, mette il dito nella piaga: “Oggi i giovani hanno domande del tutto diverse, che partono dalla richiesta di un lavoro che sia anche identità. Il fatto è che il lavoro è uno status symbol: che fighi che siamo a lavorare tanto, dicono in molti. Sono trent’anni che cerchiamo di arginare questa mentalità”, ma le aziende spesso non collaborano, hanno progetti diversi. E a Milano tutto è un’azienda, anche il Comune, “una delle più grandi del Nord Italia, con 14.000 dipendenti”, dice chi ci lavora, e come un’azienda il Comune meneghino si muove per difendere il suo marchio – e osteggiare chi cerca di incrinarlo. Forse parte della crisi di prospettiva del capoluogo proviene da lì.
Fatto sta che quel modello sta mostrando la corda, anche se c’è ancora chi è disposto a difenderlo. E il risultato è una città che ha voluto credere così tanto nel suo mito accentratore da non poter neanche rappresentare il futuro di qualche altro luogo: la parabola di Milano è unica nel suo genere e può parlare solo di se stessa.
L’imam Pallavicini: “A Milano il lavoro come fondamentalismo”
“Se la domanda è: Milano è il lavoro?, io sono leggermente controcorrente; sì, ma dipende che tipo di lavoro intendiamo, e a patto che il lavoro non sia Milano, che a Milano la vita non sia solo lavoro, e che le modalità di lavorare non siano solo un’associazione con la resa professionale.”
Yahya Sergio Yahe Pallavicini di mestiere fa l’imam, o come dice lui “gestisco l’anima dei credenti, e mi trovo a interagire con anime che sono ossessionate dalla resa produttiva, dalla psicosi o dal disagio lavorativi, dove sembra che vengano giudicati musulmani o non musulmani, italiani o meno. Il lavoro nobilita l’uomo, può essere parte degli atti di adorazione, ma non può essere la vita, e non può essere inteso solo come produttività”.
Poi provoca: “Se il successo lavorativo diventa il fine ultimo della vita umana si trasforma in fondamentalismo, mentre il lavoro è uno strumento di verifica interiore, e di sopravvivenza. Un cittadino, un lavoratore, deve tendere alla possibilità di realizzare l’uomo universale”.
Il pubblico rumoreggia, interviene, fa domande: la città vuole parlare di se stessa al di fuori dalla propaganda di una Milano bevuta fino all’ultima goccia. Non c’è tempo per ascoltare tutti, men che meno per rispondergli. L’impressione però è che il discorso sia agli esordi, e che ormai si tenga in tutte le stanze del lavoro, quelle in cui si pigiano i bottoni e quelle in cui si girano i cacciaviti.
Uno spiraglio sul domani lo apre l’imam Pallavicini citando una delle categorie di lavoratori più bistrattate del nuovo millennio, che proprio a Milano ha gettato le basi della sua dubbia fortuna.
“La nostra moschea centrale, in via Meda, vicino all’auditorium, ospita per un terzo dei rider; un terzo di persone parcheggia lì la bici e viene a pregare il venerdì dall’una e mezza alle due e mezza, cioè l’orario in cui sarebbe più attivo. I rider in quell’ora o sono tutti disobbedienti, o stanno rinunciando a lavorare e al salario per fare una pausa e venire a pregare.”
Se la salvezza del lavoro venisse dalla religione, Allah sarebbe grande per davvero.
L’articolo che hai appena letto è finito, ma l’attività della redazione SenzaFiltro continua. Abbiamo scelto che i nostri contenuti siano sempre disponibili e gratuiti, perché mai come adesso c’è bisogno che la cultura del lavoro abbia un canale di informazione aperto, accessibile, libero.
Non cerchiamo abbonati da trattare meglio di altri, né lettori che la pensino come noi. Cerchiamo persone col nostro stesso bisogno di capire che Italia siamo quando parliamo di lavoro.
In copertina: foto di Domenico Grossi dal Festival Nobìlita 2024
Leggi anche
“Trattenere” i talenti è un concetto sbagliato alla radice, tanto più se le aziende non sono in grado di riconoscerli quando li hanno a disposizione: si può essere un talento a ogni età? Ne parliamo con tre esperti di risorse umane
I dati occupazionali del Veneto mostrano aumenti considerevoli, ma nel settore dei servizi, meno retribuito. Segnali preoccupanti arrivano invece dall’industria, con particolare attenzione a quella manifatturiera, un tempo punta di diamante del Nord Est