Il diavolo veste Zara

Tutto quello che di sporco e insostenibile c’è in una filiera tra le più lunghe e patinate che esistano: quella del tessile, che alimenta il mondo della moda, in cui i grandi marchi fanno e disfano le sorti di lavoratori lontani dalle passerelle. E quelle dell’ambiente

Delle attiviste protestano contro gli sfruttamenti della filiera del tessile fuori da un negozio Zara

Il diavolo veste Prada. Ma veste anche Zara.

Perché tutto il mondo della moda si porta dietro ferite profondissime, dall’alta moda ai vestiti di bassa qualità. Quella del tessile è una delle filiere più lunghe e complicate che esistono: parte dall’agricoltura, che fornisce la materia prima, passa per la chimica, che trasforma i tessuti, e solo dopo un lunghissimo processo, spesso molto impattante dal punto di vista sociale e ambientale, arriva al confezionamento e alla vendita.

I lavoratori impiegati nel settore sono milioni in tutto il mondo, e come al solito a decidere del loro destino sono pochi grandi marchi. Manco a dirlo. Marchi – o chiamatele firme se vi suona meglio – che non si sono ancora adeguati alle regole ambientali e che sfruttano manodopera a basso costo, a volte senza neppure conoscere l’intera catena dei loro fornitori e subfornitori.

Abbiamo deciso di pubblicare questo reportage dopo una lunga chiacchierata con Deborah Lucchetti di Abiti Puliti. È stata lei a far luce su tutti i problemi che squarciano un settore che ai nostri occhi riflette eleganza, lusso e bellezza. Ma di bellezza dietro le quinte ce n’è ben poca.

Se andate a bussare alle porte delle aziende di moda, come spesso fanno quelli di Abiti Puliti e di Greenpeace, troverete inquinamento, violazioni di diritti e assoluta mancanza di tutele e sicurezza. Soprattutto in alcuni Paesi, alta intensità di manodopera significa quasi sempre alta intensità di sfruttamento.

I Paesi asiatici più produttivi sono Cina e il Bangladesh, ma nel mondo arabo dobbiamo segnalare anche la Giordania e la Turchia. Nel continente africano spiccano la Tunisia, il Marocco e l’Etiopia. E poi c’è l’Europa, dove l’Italia è uno snodo per il lusso; ma si produce molto anche in Spagna e nei Paesi dell’Est Europa.

Il settore è tentacolare, con tutto un sottobosco di fornitori e subfornitori spesso fatto di persone sfruttate, sottopagate e a volte anche abusate. Pochi grandi marchi impongono prezzi e condizioni ai fornitori di tutto il mondo, che poi le riversano sui lavoratori. Queste pratiche commerciali sleali hanno un effetto immediato sull’impoverimento dei lavoratori coinvolti. Se poi il fornitore deve sostenere un costo troppo basso comincia anche a subappaltare, e scendendo lungo la filiera, tra diversi subappaltatori, troviamo lavoro nero, lavoro grigio, lavoro illegale e lavoro minorile. E per queste persone i costi della sicurezza non sono compresi nel prezzo di acquisto, fanno parte di una delle tante voci tagliate per mantenere il costo basso: così prendono forma le tragedie come quella del Rana Plaza, che dieci anni fa si prese la vita di 1.134 persone.

Come se non bastasse il settore ha un impatto ambientale devastante, soprattutto da quando è nato il fast fashion. Considerate che nei primi quindici anni del Duemila la produzione di abiti è più che raddoppiata. Abiti che compriamo, che indossiamo in pochissime occasioni e che poi finiscono nelle discariche a cielo aperto o negli inceneritori. Alla faccia dell’economia circolare.

Giustizia sociale e giustizia ambientale oggi non appartengono al mondo della moda, ma il sistema sta cambiando e deve cambiare a una velocità sempre maggiore. Le istituzioni, in primis l’Europa, stanno lavorando per regolamentare il settore.

Ma anche noi, come consumatori, possiamo iniziare a tagliare le gambe alle aziende che producono sempre più vestiti, scarpe e accessori che non servono a nessuno, tonnellate di prodotti che soddisfano bisogni indotti e tengono in piedi un’industria tossica.

Negli articoli di questo reportage troverete nomi e cognomi delle aziende che Greenpeace e Clean Clothes Campaign non hanno avuto paura di bastonare, esponendole alla gogna mediatica; aziende che ancora oggi non hanno dato le risposte che ci aspettavamo. Abbiamo denunciato l’impatto sociale e ambientale della moda dando voce a Gianni Rosas, presidente di ILO, a Giuseppe Ungherese di Greenpeace, a Deborah Lucchetti di Abiti Puliti, ma anche alle persone sfruttate e private dei diritti basilari, con testimonianze dalla Turchia e dal Bangladesh.

Lo abbiamo fatto perché non deve essere compito solo delle istituzioni cercare di produrre il cambiamento bastonando le aziende insostenibili. Ognuno di noi oggi può riempire i suoi armadi (che, a questo punto, meno sono pieni e meglio è) in maniera più consapevole e sostenibile.

 

 

 

In copertina: Gli attivisti vestiti da “manichini rivoltanti”, a Taipei, chiedono a Zara di aderire alla campagna “Detox”, cioè di eliminare tutte le sostanze chimiche pericolose dai suoi vestiti e dalle sue catene di approvvigionamento. Foto@Greenpeace

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