Comunicazione dell’emergenza: la insegniamo all’Università ma resta lettera morta

Tra le tante questioni da affrontare alla fine dell’epidemia di COVID-19, ce ne sarà una fondamentale almeno quanto quella sanitaria: l’incapacità dimostrata dall’Italia (e non solo) nel gestire la comunicazione in emergenza, tanto a livello degli organi di informazione quanto a livello istituzionale, dato che mancano strutture e procedure preparate preventivamente per gestirla. Gli effetti […]

Tra le tante questioni da affrontare alla fine dell’epidemia di COVID-19, ce ne sarà una fondamentale almeno quanto quella sanitaria: l’incapacità dimostrata dall’Italia (e non solo) nel gestire la comunicazione in emergenza, tanto a livello degli organi di informazione quanto a livello istituzionale, dato che mancano strutture e procedure preparate preventivamente per gestirla. Gli effetti molto negativi di questa carenza sono evidenti; a partire dalle notizie – spesso contrastanti e confuse – fornite a raffica dai “governi” di enti statali periferici, come le regioni, in una sorta di concorrenza con organismi dello Stato centrale, come la Protezione Civile. Inoltre soltanto il 4 aprile, a 5 settimane dal giorno in cui il primo italiano è risultato contagiato e a tre mesi dall’avvio ufficiale dell’epidemia in Cina, è stata istituita dal governo l’“Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al COVID-19 sul web e sui social network”. Un classico caso di stalla chiusa dopo che i buoi sono scappati.

Eppure gli esperti competenti nella gestione della comunicazione in situazioni di crisi puntano il dito contro l’impreparazione delle istituzioni da molti anni, ormai da decenni. Purtroppo riescono soltanto a svolgere corsi accademici per un numero ristretto di studenti, qualche occasionale lezione destinata a chi si occupa di protezione civile, sporadiche riunioni istituzionali cui partecipano alcuni funzionari ma non i responsabili politici. Lo raccontano a Senza Filtro due esperti, i professori Marco Lombardi e Michele Nones.

Commenta il professor Lombardi, docente di Sociologia, Comunicazione e Crisis Management (il processo attraverso il quale un’organizzazione gestisce un evento dirompente e imprevisto) all’Università Cattolica di Milano, con studi focalizzati dal 1985 sulla gestione delle emergenze: «Nessuno si preoccupa di formare i comunicatori in questo campo. Io faccio corsi accademici sul crisis management della comunicazione. Ma non esiste consapevolezza di questa necessità. Il fatto è che la comunicazione istituzionale – tanto più nelle situazioni di emergenza – è considerata uno strumento di propaganda e i politici la tengono ben stretta. In tempo di crisi i due errori fondamentali consistono nella comunicazione legata al consenso, quindi di interesse politico, e nell’illusione che tutti possano comunicare senza una formazione e una strategia; non è così, un conto è comunicare in una situazione di normalità, un conto durante le crisi». Aggiunge il sociologo: «I risultati si vedono: gli italiani sono stati disorientati da messaggi scoordinati e di ogni tipo, come se non bastassero già i fiumi di fake news diffuse attraverso il web. Bisogna creare, prima che accadano i disastri, una procedura da seguire».

Ha un’opinione analoga Michele Nones, vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali (fondato nel 1965 dal grande europeista Altiero Spinelli), dal 1984 consulente nel campo della sicurezza per conto di organismi pubblici (incluso il Ministero della Difesa), società, associazioni industriali, centri e istituti di ricerca. Afferma: «Quello che è avvenuto in Italia in occasione dell’epidemia di COVID-19 mostra, purtroppo, quello che può causare una cattiva gestione dell’informazione in un’emergenza come l’attuale epidemia, paragonabile a quelle NBCR (nucleare, batteriologico, chimico, radiologico) che possono accadere in guerra. Solo una parte di ciò che è accaduto era inevitabile: la cattiva gestione della politica dell’informazione da parte delle autorità ha contribuito ad aumentarne le proporzioni». Poi afferma: «Sarebbe non perdonabile farsi ritrovare in futuro privi di un’adeguata preparazione, dopo questa esperienza. Occorre cambiare il nostro modo di affrontare le emergenze perché sono inevitabilmente destinate a ripresentarsi. Dopo l’emergenza, bisognerà ragionare sugli errori e rimediare».

 

Comunicazione in emergenza, Marco Lombardi: “Da Chernobyl non abbiamo imparato niente”

È dunque obbligatorio, secondo i due esperti, iniziare, seppure in ritardo, ad applicare le lezioni del passato per affrontare le sfide del presente. Basti pensare alla catastrofe di Chernobyl: 34 anni fa, nel 1986, una nube radioattiva – invisibile e inodore come il coronavirus – seminò il panico in Europa; con gestioni diverse da parte di ogni Paese (e un’improvvisazione lampante per quel che riguarda il nostro, tanto che si crearono le stesse code davanti ai supermercati). Al professor Lombardi il raffronto tra il caso del COVID-19 e quello di Chernobyl appare molto significativo: «Purtroppo non abbiamo imparato niente da allora, come comunità e a livello istituzionale», dice il sociologo.

 

Professor Lombardi, in che senso non abbiamo imparato niente?

Proprio a partire da Chernobyl abbiamo cominciato a studiare la comunicazione dell’emergenza. Già allora si intuiva che ciò che viene comunicato, se gestito male, può avere un effetto esplosivo sull’opinione pubblica. In Italia infatti si sbagliò, creando il panico. Però da allora si è fatto ben poco. Eppure è proprio la comunicazione, quella istituzionale e quella dei mass-media professionali, che definisce il livello di percezione della minaccia tra la gente. Soprattutto se è una minaccia che non si vede, come un virus o le radiazioni.

In che modo si gestisce sul fronte della comunicazione una situazione come quella provocata dal coronavirus?

L’obiettivo della comunicazione in caso di emergenza è quello di informare le persone affinché possano attuare comportamenti sicuri e in grado di permettere la prevenzione. Se si risponde in modo emotivo, è un disastro. È pure peggio se poi si mette di mezzo chi ha la frenesia di intervenire per protagonismo politico oppure mediatico, lanciando a raffica messaggi spesso contraddittori. È proprio quello che è successo nelle prime settimane e che in parte accade ancora. In questo modo il clima di insicurezza è aumentato invece di diminuire, dato che la gente è stata disorientata e allarmata da segnali incoerenti e casuali da parte di istituzioni e media.

La responsabilità di chi è?

Non solo dell’incapacità generale di gestire l’emergenza una volta esplosa, ma anche, e forse soprattutto, del fatto che nessuno ha preso, e prende, la decisione di creare una strategia preventiva, con una procedura da seguire. D’altra parte, oggi nessuno forma i comunicatori per questo tipo di eventi. Tg, media online e giornali hanno cambiato registro più volte, passando continuamente da esasperazioni a sottovalutazioni e viceversa. Talvolta i giornalisti si sono messi a recitare la parte dei medici, i medici quella dei giornalisti. I politici – di ogni livello – si sono spesso esibiti nella gara tra “chi è più bravo”. Invece meno i politici si improvvisano comunicatori, in questi casi, meglio è.

E gli scienziati?

Gli stessi scienziati – invece di proporre una visione omogenea della situazione, dopo essersi confrontati – soprattutto nelle prime settimane hanno dato vita a battibecchi in diretta tv o sui social, sostenendo tesi contrastanti. Eppure sappiamo da anni che ciò che dicono gli scienziati dovrebbe essere, in questi casi, la principale fonte di informazione, perché la gente ha fiducia nella scienza. La comunità scientifica dovrebbe essere sempre l’àncora resiliente, quella che permette alla popolazione di orientarsi di fronte a una situazione temibile e sconosciuta e che stimola strategie di risposta e strategie preventive. Inoltre, il Governo centrale avrebbe dovuto prendere subito il controllo della situazione anche sul fronte della comunicazione, con un solo coordinamento.

I giornalisti non bastano per informare?

No. C’è chi pensa che basti un qualsiasi esperto, o sedicente esperto, in comunicazione, scelto da un politico. Oppure che sia sufficiente un bravo giornalista. Ma il lavoro dei giornalisti, pure di quelli più bravi, è quello di informare, non di gestire la comunicazione in caso di emergenza. Le persone vanno formate prima, perché riescano a gestire la situazione. Questa è una disciplina specifica che richiede competenze, da mettere all’opera quando c’è una crisi da gestire. Non solo. Non ci siamo accorti a sufficienza dei grandi cambiamenti che il sistema mediale ha avuto in questi anni: ai tempi di Chernobyl i social media non c’erano, il web non c’era. La comunicazione avveniva attraverso i giornali, le radio e qualche telegiornale, non attraverso milioni di fonti incontrollate e autoqualificanti, che magari propongono pseudo-soluzioni prima che intervenga una comunicazione pubblica. È un sistema sempre più denso e complesso. Oggi non sono prevedibili le ricadute perché non riusciamo a essere preparati per misurare tutti i percorsi di questa rete ipercomplessa.

Senza una strategia, la gente si sente smarrita?

La gente non vuole sentirsi dire che in tre giorni tutto sarà sistemato; vuole però avere una prospettiva, un orizzonte fisso, verso cui dirigersi, sapendo come deve comportarsi. Invece gli è stato proposto un orizzonte che continua a mostrarsi per poi scomparire; o meglio, ha avuto vari orizzonti, spesso contraddittori, a seconda dei momenti e degli interlocutori. Serve una catena di comando e controllo chiara e unica, fatta da persone competenti, che definisce quell’orizzonte insieme ai media; questa catena di comando e controllo non c’è stata. Il ritardo nella comunicazione istituzionale in una situazione di emergenza favorisce sempre il proliferare di voci e notizie false. Quei messaggi sbagliati hanno riempito a livello cognitivo il bisogno di sapere che le persone hanno. Dopo è difficile scalfire certe convinzioni, aiutare a comprendere lo scenario di rischio, interpretare la minaccia e indicare comportamenti sicuri.

 

Michele Nones: “COVID-19? Andava seguita la regola delle tre P”

Anche il vicepresidente dell’IAI è costernato per l’impreparazione svelata da questa emergenza nazionale.

 

Professor Nones, perché sul fronte della comunicazione in emergenza siamo apparsi così vulnerabili?

Perché non abbiamo voluto prepararci. Faccio un esempio. In Italia da tre anni opera il Cluster Cbrn-P3, di cui lo IAI fa parte. È un network costituito nel 2017, che coinvolge attori del mondo scientifico, industriale e istituzionale, attivi nel campo della preparazione, prevenzione e protezione della popolazione e dell’ambiente dai rischi NBCR (Nucleari, Biologici, Chimici e Radiologici, N.d.R.). Abbiamo sempre tentato, senza risultati, di suscitare l’interesse dei politici, quelli che decidono, su questi temi. Dovrebbe essere seguita la regola delle tre P.

Qual è la regola delle tre P?

Preparare, prevenire, proteggere. Significa definire e aggiornare procedure e catena di comando, addestrare il personale, avere l’equipaggiamento necessario, preparare una politica dell’informazione, predisporre in tempo utile le norme da attuare. Purtroppo questo tipo di approccio non è mai stato praticato.

Può farci un esempio pratico per quel che riguarda la comunicazione?

Certo. Ben 13 anni fa lo IAI ha svolto, con un gruppo di esperti, una ricerca per conto del Centro Militare di Studi Strategici del ministero della Difesa (CeMiSS) su “La minaccia NBCR: potenziali rischi e possibili risposte”. Fra le esperienze esaminate vi era stata la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome, N.d.R.), l’influenza provocata proprio da un coronavirus: dal novembre 2002 al luglio 2003 provocò 8098 contagi e 774 morti, soprattutto in Cina, Sud Est asiatico e Canada. La ricerca avanzava numerose proposte per preparare meglio il nostro Paese anche sul fronte dell’informazione per l’opinione pubblica. Gli eventi di questi giorni dimostrano quanto sarebbe stato utile.

Quali misure?

Nel 2007 scrivevamo: è importantissima la necessità di una pianificazione preventiva a tutti i livelli. In particolare, occorre organizzare l’individuazione precisa dei responsabili della comunicazione e l’allestimento di appositi piani comunicativi. Il rischio di panico generalizzato, infatti, può limitare l’efficacia di qualsiasi intervento, provocando ulteriori problemi e coinvolgendo anche chi si occupa di sicurezza. Un’emergenza come quella del COVID-19 è proprio caratterizzata dalla scarsa conoscenza da parte degli individui delle caratteristiche del rischio e dalla paura legata a una minaccia non visibile. Molto dipende, quindi, da come viene gestita la diffusione delle informazioni.

L’informazione andrebbe gestita e controllata. In un Paese democratico è una questione molto delicata. O no?

Sì. Perché rischia di avere un impatto sulla libertà di informazione, che è uno dei pilastri del nostro sistema sociopolitico. Non solo: in una società “mediatica” gli strumenti di informazione sono tantissimi e diversi; dalle tv alle radio, dalle chat ai social, dagli sms ai normali mass-media. Proprio per questo motivo occorre che chi gestisce queste situazioni abbia un’adeguata preparazione.

Come coordinare la comunicazione istituzionale con quella dei normali mass-media?

Bisognerebbe coinvolgere preventivamente editori, direttori e giornalisti nella messa a punto di un codice di condotta volontario per la gestione delle informazioni nel caso di un’emergenza di questi tipo. Inoltre si potrebbe designare in ogni ente un portavoce e farlo preparare adeguatamente, in modo che abbia un profilo tecnico ottimale e una riconosciuta autorevolezza, con un chiaro e perentorio divieto di intervento a chiunque altro, compresi i suoi superiori. Di certo, si dovrà iniziare su questo fronte una riflessione approfondita, in modo da poter affrontare nel modo migliore le prossime emergenze. Speriamo che possa essere la volta buona.

Photo by Denny Müller on Unsplash

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