La lezione di Zaia e Fontana: una politica di primedonne, manca un portavoce

Anni fa mi capitò di intervistare per un reportage un negoziatore di ostaggi dell’esercito israeliano: Michael Tsur. Di professione avvocato e formatore di mediatori, Tsur serviva il suo paese come riservista e veniva chiamato e prelevato con un elicottero dovunque si trovasse per questo tipo particolare di situazione di crisi, purtroppo frequente in Medio Oriente […]

Anni fa mi capitò di intervistare per un reportage un negoziatore di ostaggi dell’esercito israeliano: Michael Tsur. Di professione avvocato e formatore di mediatori, Tsur serviva il suo paese come riservista e veniva chiamato e prelevato con un elicottero dovunque si trovasse per questo tipo particolare di situazione di crisi, purtroppo frequente in Medio Oriente nei decenni passati.

Tra i molti spunti interessanti di quell’incontro mi colpì una sua riflessione sulla stanchezza. La mediazione di ostaggi, mi spiegò, non si fa come si vede nei film americani (uno per tutti: Il negoziatore con un giovane Kevin Spacey), ossia in solitaria con un uomo sempre sveglio e pronto a prendere “la” decisione del caso; bensì è un lavoro di squadra, perché la tensione di quelle situazioni, le poche ore di sonno, la stanchezza che si accumula e la pressione dei media prima o poi portano di sicuro il singolo negoziatore a prendere decisioni sbagliate. Quello – mi spiegò Tsur – è il momento più importante, quando devi passare la mano a un collega del tuo team e andare a mangiare, dormire, o anche tutti e due.

Quella riflessione di Tsur mi è venuta in mente nei giorni scorsi osservando le due clamorose gaffe dei presidenti di regione sul coronavirus: quella di Attilio Fontana (Lombardia), che è apparso in collegamento video Skype con la mascherina dicendo di stare tranquilli, e quella del collega veneto Luca Zaia, che a una tv locale ha affermato con un certa disinvoltura che i cinesi mangiano topi vivi. Ora, Fontana e Zaia sono due persone di buonsenso, note per la loro apprezzata amministrazione: il primo avvocato, il secondo ex Ministro dell’Agricoltura indicato nel 2019 da un sondaggio SWG al top della classifica di gradimento dei governatori italiani, seguito da Bonaccini (Emilia-Romagna) e dallo stesso Fontana. Com’è possibile che i due abbiano preso una cantonata del genere, gravissima dal punto di vista mediatico e politico?

Come accade negli incidenti aerei, quasi sempre causati da molteplici eventi, ritengo che anche nel caso dei due governatori che si sono esposti al ridicolo tutto dipenda da una concausa di tre fattori.

 

I motivi delle figuracce di Attilio Fontana e Luca Zaia

Il primo, ne abbiamo scritto poco fa, è la scorretta gestione della stanchezza in una situazione di pressione dovuta ad una crisi che, va detto a discolpa dei due, al momento non ha precedenti in Italia. La seconda causa è prettamente politica: Lombardia e Veneto sono da tempo impegnate a rivendicare una maggiore autonomia dallo Stato centrale. Nella prima Regione c’è stato addirittura un controverso referendum nell’ottobre del 2017 (quando governatore era Roberto Maroni) mentre sulle istanze autonomiste del Veneto c’è ben poco da aggiungere: tutti ricordano la sceneggiata in mondovisione del carrarmato artigianale dei cosiddetti “Serenissimi in Piazza San Marco, nel 1997.

Ora, ogni governo che si rispetti ha una sua liturgia e una sua scenografia da esibire nei momenti topici; e quale occasione migliore dell’emergenza coronavirus per organizzare delle solenni e quotidiane conferenze stampa nella sala Marco Biagi della Regione Lombardia, sotto la croce bianca stilizzata su campo verde che ricorda – anche molti lombardi lo ignorano – la rosa camuna, segno caratteristico del popolo dei Camuni (siamo nell’età del ferro) della Val Camonica. Insomma, la voglia di situation room mischiata al latente desiderio dell’autonomia ha giocato un brutto scherzo ad Attilio Fontana (meno a Zaia, che parlava sempre in strada) innescando una sorta di gara di dichiarazioni e conferenze stampa con la protezione civile di Roma e col premier Conte per capire chi la faceva più lontano.

A tutto questo c’era rimedio? Secondo me sì e qua veniamo alla terza causa di questa figuraccia mediatica dei governatori: l’incapacità dei politici italiani di capire quanto è importante avere un portavoce degno di questo nome. I politici nostrani infatti sono bulimici di TV, drogati dalle luci degli studi televisivi, e se questo è abbastanza giustificabile quando devi farti conoscere o sei in campagna elettorale, lo è meno quando si ricoprono incarichi di governo: allora bisognerebbe parlare il meno possibile e mandare avanti a spiegare le decisioni altre persone, che sono appunto – all’estero – i portavoce. Ma i per i politici italiani l’astinenza da media è troppo forte: il portavoce, bene che vada, lo concepiscono come un addetto stampa che tiene l’agenda per le ospitate nei talk show, o nel peggiore dei casi come un tirapiedi o un portaborse.

 

La politica e l’importanza del portavoce: da Putin a Pertini

Ogni tanto nella storia repubblicana emergono delle figure atipiche (da ultimo Rocco Casalino, il portavoce del premier Conte), personaggi ambigui che vogliono restare dietro le quinte e godono quando i giornali li descrivono come un mix tra Rasputin e Richelieu, eminenze grigie, pseudo-burattinai del capo. I politici italiani dal canto loro, una volta assunta una carica pubblica, sentono di poter fare a meno di un intermediario con la stampa, al contrario dei presidenti americani – con l’eccezione di Trump, che fa da solo con Twitter – o anche russi – ma qua la cosa vale solo per Putin, il cui portavoce Dmitry Peskov da decenni interagisce coi giornalisti senza mai apparire in TV. Anche Angela Merkel ha il suo portavoce, Steffen Seibert, mentre la Commissione Europea ha una robusta ed efficientissima squadra di portavoce che si presenta ogni giorno puntualmente alle 12.00 per il briefing du midi: se un giornalista in quel luogo fa una domanda al portavoce di un commissario europeo, la risposta è come se l’avesse data il commissario stesso.

I nostri politici, nazionali e regionali, compressi nella loro bulimia da telecamere, non sembrano stranamente aver capito quanto è comodo avere un vero portavoce, se non altro perché in caso di errore è immediatamente sacrificabile, esattamente come l’agnello di biblica memoria. Vale per tutti la memorabile vicenda di Antonio Ghirelli, capo ufficio stampa del Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che dette le dimissioni in seguito a un controverso comunicato stampa del Quirinale su Cossiga – dimissioni di fatto rassegnate per proteggere Pertini stesso. Insomma, se Fontana e Zaia avessero avuto dei portavoce che andavano in video con la mascherina a parlare di cinesi mangia-sorci, il ridicolo sarebbe stato schermato dall’immediato licenziamento di questi ultimi: invece in video ci sono andati loro, e già gli va bene che con la drammatica situazione economica e sociale dovuta al virus presto gli italiani, che hanno la memoria corta, si dimenticheranno di quelle figuracce.

Una prima lezione mediatica del COVID-19? Cari politici, con o senza virus, per affrontare telecamere e giornalisti ed evitare di fare figuracce, è sempre meglio usare una protezione: invece della mascherina, provate col portavoce.

 

CONDIVIDI

Leggi anche

Un giornalista è per sempre

In Italia ci sono 110 mila giornalisti, quasi il doppio degli Stati Uniti. Di questi 110 mila quelli che svolgono la professione, cioè che vivono di questo lavoro, sono meno di 30 mila. Gli altri hanno in tasca un tesserino d’iscrizione all’Ordine che non serve a nulla, se non a fregiarsi di una qualifica che non […]