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La Cattiva Notizia sulle Notizie Cattive
Se nei media prevalgono le cattive notizie, anche perché alla base vi è la convinzione che in questo modo i lettori siano più attirati, concetto non nuovo, riconducibile a ben prima dell’avvento della Rete e dei social, nella comunicazione d’impresa la positività dovrebbe essere d’obbligo. Che si tratti di comunicazione esterna, mirata alla gestione della reputazione […]
Se nei media prevalgono le cattive notizie, anche perché alla base vi è la convinzione che in questo modo i lettori siano più attirati, concetto non nuovo, riconducibile a ben prima dell’avvento della Rete e dei social, nella comunicazione d’impresa la positività dovrebbe essere d’obbligo.
Che si tratti di comunicazione esterna, mirata alla gestione della reputazione dell’impresa, o di comunicazione interna, l’idea di positivizzare il messaggio è un principio di base. Principio che si scontra con pratiche tanto inopportune quanto inadeguate che in realtà sono molto più diffuse di quanto si sarebbe portati a immaginare.
Per quanto riguarda la comunicazione interna sono due i principi cardine dai quali partire.
L’idea di responsabilità, sorpassando il concetto di colpa – perdono che spesso innesta una spirale viziosa, implica sia la facoltà di operare che la volontà di rendersi garante dell’azione. Come ricorda Strawson, filosofo inglese, tra i massimi esponenti della filosofia analitica, il concetto di responsabilità deve essere spiegato in termini di atteggiamenti morali diretti alla volontà dell’agente. La responsabilità non dipende dalla metafisica dell’azione, ma è spiegata in riferimento al fatto che siamo soggetti dotati di razionalità, sensibilità e interessati a come gli altri sono disposti nei nostri confronti, perché siamo animali sociali, reciprocamente vulnerabili e interdipendenti.
Il concetto di Response Ability è idealmente superiore a quello, già importante, di responsabilità. Implica, infatti, oltre ai concetti propri della responsabilità, da un lato, l’idea di non riversare i fatti colpevolizzando qualcun’altro, e, dall’altro, l’idea di essere in prima persona proattivi, con volontà e capacità risolutiva. Ipotesi di lavoro che dovrebbe essere alla base di qualunque relazione, e dunque comunicazione, all’interno dell’impresa.
A questo si affianca, quando del caso, il concetto di biasimo motivante. Idea apparentemente no-sense che invece se applicata è di assoluta efficacia. In base a tale principio infatti il biasimo, il rimprovero, se necessario, al dipendente, al collaboratore, non deve essere effettuato colpevolizzandolo bensì invitandolo a darsi la risposta giusta da solo. Se, ad esempio, una persona con la quale collaboriamo ha avuto un comportamento scorretto o inopportuno potremmo chiedergli cosa ne pensi di una persona che ha avuto il medesimo comportamento [“lei cosa ne penserebbe se una persona facesse xyz?”] affinché in tal modo sia egli stesso a biasimare il proprio comportamento e dunque, a parità di condizione, sia maggiormente motivato a non ripeterlo, a correggerlo.
In quest’ottica il biasimo può essere il punto di partenza di complessi processi riparativi e compensativi. Nella misura in cui è inteso come uno strumento per riparare una relazione morale può avere risultati di trasformazione. Questo succede normalmente, ad esempio, nell’esperienza genitoriale, nella quale la funzione chiave del biasimo è principalmente educativa e inclusiva, piuttosto che punitiva e correttiva.
Nella comunicazione esterna da sempre la gestione dell’immagine positiva dell’impresa e della sua reputazione sono aspetti fondamentali. Elementi che, se possibile, hanno accresciuto la loro rilevanza con l’avvento della Rete prima e, soprattutto, dei social poi.
Si tratta di aspetti che vanno oltre la comunicazione pubblicitaria tradizionale per sconfinare nel lavoro degli addetti ufficio stampa e delle PR la cui complessità si è decisamente incrementata poiché, come noto, oggi non è più sufficiente controllare ed avere buone relazioni con pochi giornalisti ma è necessario mantenere un monitoraggio della Rete, identificare nodi e snodi, influencers e, soprattutto, costruire da un lato una strategia di comunicazione di crisi e, dall’altro lato, gestire quotidianamente la reputazione.
La reputazione, di una persona, un’azienda o un brand, è tutto, è l’essenza ultima del valore, del credito di cui gode e dunque di ciò che è possibile. La reputazione di un soggetto è la considerazione o la stima di cui questo soggetto gode nella società. Esiste un processo passivo nel quale ognuno si crea un’immagine, un’opinione di qualcosa o di qualcuno. Esiste poi un processo attivo che è ciò che si è disposti a testimoniare pubblicamente di qualcosa e/o di qualcuno. In ultima analisi, la reputazione è la credibilità provata.
Esistono inoltre momenti di vita aziendale nei quali può essere necessario, o comunque “obbligatorio” comunicare cattive notizie relativamente all’impresa, si tratti di risultati economici non positivi o di eventi eccezionali che, ahimè, possono verificarsi.
È in questi casi che l’implementazione di una buona strategia di employees engagement sui dipendenti dell’impresa diviene fondamentale. Infatti se il personale dell’impresa è coinvolto e soddisfatto assumerà un ruolo determinante nella difesa della reputazione in Rete con il proprio contributo che avrà, comunque sia, una credibilità di gran lunga superiore a quella ufficiale aziendale. Non è un caso se l’employees engagement viene definito come “top challenge”, come la sfida più importante da vincere secondo i risultati di un sondaggio condotto da Deloitte in 106 nazioni, Italia inclusa.
La vera cattiva notizia sulle cattive notizie è che nel 2015 in Italia sono davvero una rarità le aziende, le organizzazioni, che sviluppano queste strategie e questi comportamenti virtuosi, il resto è possibile gestirlo adeguatamente.
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