La sindrome di Stoccolma non tocca i pensionati

Stoccolma. Chi aveva una buona posizione professionale, ora si gode la pensione respirando a pieni polmoni la libertà garantita dalla combinata “tempo libero-sicurezza economica”. Chi arrancava da lavoratore, arranca a maggior ragione da pensionato. Ed in particolare le donne che, confidando nello Stato sociale, hanno usufruito del part-time per crescere i figli mentre i mariti […]

Stoccolma. Chi aveva una buona posizione professionale, ora si gode la pensione respirando a pieni polmoni la libertà garantita dalla combinata “tempo libero-sicurezza economica”. Chi arrancava da lavoratore, arranca a maggior ragione da pensionato. Ed in particolare le donne che, confidando nello Stato sociale, hanno usufruito del part-time per crescere i figli mentre i mariti al permesso di “papa-lady” hanno preferito la carriera, ora si ritrovano appunto con un mensile part-time.  Oggi sono loro a tremare all’arrivo delle buste arancioni sui pronostici dei vitalizi. Niente di nuovo sotto il sole, dunque, neanche quando i raggi invernali sono quelli flebili della Svezia.

La scure classista divide in due la popolazione anche qui, dove l’età della pensione è vissuta come una meritata fase godereccia della vita da chi ha un vitalizio più che dignitoso, e come una prolunga di agonia con bilanci famigliari da far quadrare al centesimo fino alla fine, da chi ha costruito la sua carriera previdenziale senza scannarsi di lavoro, anche se sulla base di una professione mediamente qualificata. Qui si erge sempre più appannato il mito del welfare a sostegno delle famiglie. Ad incidere maggiormente sull’entità della pensione è il ricorso al part-time, concesso con grande facilità ai genitori che desiderano accudire i figli. È però la mamma ad avvalersene nella quasi totalità dei casi, perché i papà preferiscono la carriera. E sono infatti le donne oggi a temere di più per le loro pensioni, come emerso da un’indagine condotta da Kristina Kamp, economista specializzata nel settore pensionistico, secondo la quale: «Molti svedesi ricevono un mensile poco superiore alla metà del loro ultimo stipendio. Precedenti studi avevano evidenziato livelli molto più alti, ma oggi non viviamo secondo i modelli del passato. Non è che iniziamo il lavoro a 23 anni, continuiamo fino a 65 e non facciamo niente altro in questo arco di tempo. Le cose accadono».

Lo conferma una delle tante interessate, intervistata dal primo canale tv nazionale svedese, Pia Lisell Lundgren. Infermiera, per lo più assegnata ai turni di notte, lavora da quando aveva 17 anni e gliene mancherebbero solo tre per andare in pensione ma sta progettando di continuare perché: «Non so quali condizioni finanziarie avrò — dice. — L’ultima volta che ho avuto il coraggio di aprire le lettere arancioni delle Autorità è stata 7-8 anni fa. Il pronostico per me era pari a 1.153 euro. Sognavo di essere in grado di viaggiare, una volta ritiratami dal lavoro, ma pare proprio non sarà così. Forse riuscirò a vendere la mia casa e mi trasferirò in un alloggio in affitto, per avere qualche soldo in più durante la pensione».

E cosa pensano di questo panorama gli italiani che hanno scelto la Scandinavia per vivere e lavorare? Valentina Palucci, ricercatrice universitaria in Miglioramento Genetico Animale alla Sverige Lantbrusk Universitet di Uppsala, in Svezia da sei anni dopo averne trascorso otto in Canada, risponde così: «Da quel che vedo la pensione è vissuta in maniera diversa a seconda dei campi di lavoro. In accademia, ad esempio, direi che molti, soprattutto se professori, tendono a lavorare oltre l’età pensionabile. Personalmente spero di arrivare al traguardo in salute e dubito che continuerò a lavorare se mi sarà concessa una vita dignitosa. Dove? Di certo non qui. Mi auguro di potermene andare in un posto caldo!».

Molto più fiducioso sul sistema svedese è anche Lorenzo Menichetti, ricercatore postdoc, che dopo aver vissuto e lavorato in Finlandia, ritornerà in Svezia. «I finlandesi — spiega — si fidano ancora del sistema nazionale e non ne hanno assolutamente paura, anzi, perché è profondamente radicato sul senso del welfare. L’idea che lo Stato si prenda cura dei più deboli è orgogliosamente avvertita, quindi i finlandesi vedono la pensione come una cosa naturale, parte del processo di invecchiamento. Non è nè un traguardo, né qualcosa di incerto, è solo normale. Giusto quelli un pochino più attenti alle news e un po’ meno conservatori, cominciano a dubitare leggermente ma giusto perché il governo attuale è abbastanza incompetente a mio avviso. Personalmente penso che il sistema pensionistico abbia davanti delle enormi sfide economiche, ambientali e demografiche, e che come tutto il resto della società dobbiamo adattarci a un’idea di decrescita (sensata) dopo qualche decennio di espansione continua. Realisticamente, chi ha la pensione adesso ce l’ha troppo alta, e noi non dobbiamo certo aspettarci altrettanto perché non è possibile. Credo anche che il sistema in sé non debba essere toccato, ed è ovvio che lo Stato debba provvedere alla pensione, che io debba versare le tasse anche per prendermi cura di chi è vecchio adesso. Siccome penso anche che le società occidentali siano sempre più a rischio di collasso per evidenti limiti socioeconomici, mi farò probabilmente anche un fondo pensionistico privato».

E l’Italia? «Da Italiano all’estero, ormai l’idea di tornare la vedo come totalmente assurda. Ho sposato una finlandese, non amo la confusione, il mio lavoro in Italia è impossibile e la pensione, la mia generazione, probabilmente se la deve scordare. Non ci penso nemmeno. Ritornando a lavorare in Svezia, credo preferirò aver a che fare con lo Stato svedese, più affidabile di quello finlandese a mio parere, e basato su solidi principi di giustizia sociale».

 

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