Le professioni-trattino

Chiedersi come sarà il futuro, quali lavori esisteranno e soprattutto come fare a prepararsi emerge come primario generatore d’ansia. “Cosa farai da grande?” era, nel secolo scorso, la domanda canonica rivolta ad ogni virgulto. La risposta aveva da fare con chiare e definitive categorie professionali: l’astronauta, il maestro, il pompiere, il poliziotto, il giornalista, il […]

Chiedersi come sarà il futuro, quali lavori esisteranno e soprattutto come fare a prepararsi emerge come primario generatore d’ansia. “Cosa farai da grande?” era, nel secolo scorso, la domanda canonica rivolta ad ogni virgulto. La risposta aveva da fare con chiare e definitive categorie professionali: l’astronauta, il maestro, il pompiere, il poliziotto, il giornalista, il cuoco.

Se la stessa domanda la si pone ai ragazzi di oggi, il silenzio regna sovrano, oppure le risposte riguardano professioni ex-temporanee (non-modelli generati dalla TV e dai green-social – tatuaggi sportivi, unghie fashion, street food), il calciatore, la modella, l’assaggiatore (Man versus Food è un must in queste risposte), il cuoco di strada.

Mai una volta che capiti di sentire idee vicine alle diffuse conversazioni in rete sul futuro-del-lavoro (sui silver-social tipo LinkedIn per capirci): l’ottimizzatore-di-siti, il web-analista, il ricercatore-umano-di-risorse-umane, il costruttore-di-blog, il consulente-dimmi-solo-che-faccio-bene, l’health-coach, il design-thinker, lo story-teller, il social-media-coso, il community-manager, l’innovation-expert, l’open-sourcer, il fiero-maker. Un mondo di professioni-trattino. Questi astrusi, fumosi, opachi ruoli professionali una cosa la svelano: è in movimento un popolo di disorientati, sedicenti, esperti che si leggono, parlano e condividono reciprocamente. Un mi piace non si nega a nessuno.

Pensare il futuro del lavoro è certamente difficile, eppure è in mezzo a noi. Il mondo è cambiato, gli inglesismi proliferano (questo testo ne è la prova definitiva) e quello che possiamo pensare a discolpa è che le professioni, forse, non sono più delimitate da mansionari precisi, da specializzazioni, da ingaggi su misura e da parole chiare per dirle.

Premesso che amo tutto questo e che sono un entusiasta della caduta dei modelli (è una prospettiva sociale che mi attrae ancora più della caduta delle ideologie o della caduta degli dei), chiunque attraversi il mondo del lavoro, quello delle aziende, dei brand, dei prodotti, sa che multidisciplinare non è solo una visione, è una necessità che porta con sé un fattore, enorme, di rischio: i trattini. Stretti tra un passato che non torna ed un futuro nebbioso, ci aggrappiamo infatti a quelli. Nessuna delle attività che riguardano il futuro sembra possa limitarsi ad una singola tecnica, conoscenza, professionalità, anzi; oggi i profili sono multi-identity, multi-tasking, multi-pro. Ancora trattini tra noi, appunto.

Da qualche parte si legge che in futuro ognuno farà 7/8 lavori diversi, non nel corso della vita, ma in contemporanea. Fuor di provocazione, saper fare bene, molto bene, una cosa sembra non bastare più.
Prendiamo una qualunque professione di quelle “che fanno la differenza”, che so, il designer. Una volta si arrivava in azienda grazie a studi o ad esperienze pregresse o per via dell’appartenenza ad una certa lobby, associazione o bottega, si condivideva il briefing concreto che qualcun altro aveva ben pensato, si discuteva con l’ufficio tecnico; magari il capo ci dava un’infarinata sui canoni dei prodotti in relazione al brand (lo styling), magari ci invitava anche a guardare qualche produzione concorrente. L’ultimo invito era ad essere creativi, molto creativi, “poi, fai un po’ come ti pare”.

Semplificando: ci si incontrava, si iniziava la procedura di progettazione, ci si interrogava intimamente, si disegnava, si costruiva qualche prototipo, si disegnava ancora. Si discuteva coi tecnici della produzione nel merito dell’oggetto e delle prassi di costruzione, si adattava qualche scelta ed infine si finiva il progetto con la presentazione al committente. Insomma, competenza, esperienza, umanità, bisognava saper progettare.

Oggi, prima si deve aver cura degli aspetti relativi alla propria formazione continua, delle metodiche di ricerca sui settori di esperienza e potenziali e, soprattutto, di un personal-brand riconoscibile per segno, reputazione ed identità sociale (meglio rendersi visibili con qualche articolo su testate/social/portali trendy); è bene aver rilasciato qualche intervista del tipo altrimenti non esisti, condivisa, liked, cuoricinata (tu quoque twitter?), virale, youtubed (questo soprattutto in età fotogeniche; se uomo, con obbligo di barba hipster). È fondamentale che ognuno di questi passaggi abbia forti KPI e che emerga dai motori attraverso metriche che implicano straordinarie capacità di manipolazione dei google-algoritmi. Strategico sembra, ora, pubblicarsi un selfie-taggato con chiaro esponente di famosa-intellighenzia.

Dopo il primo incontro sul progetto, ci si deve auto-briefare perché in effetti, “anche noi, in azienda, non abbiamo le idee chiare” e, quindi, definire il processo in relazione al mondo del design thinking (o del design sistemico per quelli maggiormente up-to-date), poi effettuare ricerche sia sul piano evolutivo culturale che su quello antropologico-strutturale, sui profili di consumo e sugli andamenti dei mercati e sui cambi di paradigma (un minimo di video-interviste ad illustri sociologi ed a sconosciuti studiosi, è sempre gradito dal cliente), andare a caccia delle ultime soluzioni tecnologiche e dei nano-materiali più nuovi, fare benchmarking (funzionale, ergonomico, competitivo, formale, comportamentale; in due parole, inutile fuffa), proporre soluzioni facilmente industrializzabili (se il committente applica principi di lean production, sarà ancora più facile, “perché questo e quello non si possono fare”, quindi? “in verità, siamo a posto così”) ed economicamente vantaggiose, anzi miracolose, “ci interessano i mercati esteri”.

È bene produrre qualche profezia nello specifico di settore, citare un guru noto a tutti (Steve Jobs e Dieter Rams sono sempre perfetti, Castiglioni e Philip Stark possono essere assunti a dosi alterne, dopo i pasti) ed uno completamente sconosciuto (per auto-referenziarsi come cultore della materia). Forse, alla fine, una piccola parte del tempo lo si potrà investire anche nel pensare veramente l’oggetto; più fruttuoso però un bel render che presenti l’oggetto più desiderabile di quello che sarà alla fine. Talvolta, l’atto creativo (“fai così, fai cosà”) è effettuato direttamente nella lavorazione di un moke-up (attenzione a non chiamarlo prototipo), qualche volta, quasi sempre, si usa il moke-up per fare il disegno ex-post. Carpito il senso del prodotto, ci si dovrà attrezzare per presentarlo in stile Pixar o Mastro Geppetto, a seconda delle radici culturali del committente e poi si lavorerà sull’identità dello stesso, in termini di nome, di collocazione nel contesto della Storia del Design o della Storia dell’Arte e, magari, si daranno due dritte su come comunicarlo, condividerlo via social network, venderlo (sell-in, sell-out naturalmente). Si dovrà partecipare a definitive (per lo spirito umano) riunioni di presentazione-spiegazione alla rete vendita, magari ad una conferenza-convention, scandita da orrendi catering e torride gite in pullman; infine ci si dovrà battere al meglio, tra associazioni ed enti inutili, per vedere di rimediare qualche premio che dia lustro all’idea e reputazione a tutti.

In sintesi, self-marketer, self-publisher, giornalista, social-media-manager, SEO, pensatore-ricercatore della storia del design, sociologo comportamentista, ergonomo, economista d’azienda, esperto dei nano-processi industriali, lean-thinker, ricercatore delle materie, profeta, renderista, attivista social, copywriter, regista, comunicatore, conferenziere, seller-door-to-door, esperto di pubbliche relazioni. E, mi raccomando, “innovatore”. E tutto questo “se non ti spiace”, almeno in lingua inglese.

C’è qualche rischio connesso a questa moderna operatività professionale? Sì, quello di non essere esattamente il massimo esperto in una o due di queste discipline e quindi, di essere bruciati sul filo di lana, da un manager-embedded-esperto-lui-sì-dei-prodotti-di-questo-settore (i manager, si sa, sono collezionisti di trattini), che approfitterà della vostra défaillance, magari sulla work-flow-configuration della Sua-Fabbrica-4.0 o sulla declinazione dei maledetti verbi irregolari inglesi (mannaggia, perché a scuola ho studiato francese?), per cambiare un dettaglio e mettere in produzione l’oggetto di tanto lavoro, senza il vostro nome, ma con il vostro cuore dentro, con il vostro sudore intorno e con la testa che vi gira, a 720° appunto.

Le professioni oggi sembrano diventare un esercizio continuo di hyper-link, un infinito spostamento tra hub tecnici, concettuali e culturali. Il rischio è quello di perdersi tra un link e l’altro, di smarrirsi infra, tra i diversi layer, di inciampare in qualche super-nova concettuale o in qualche buco nero della cultura-immateriale-olivettiana, di scivolare su un trattino: siamo, tutti, moderni affabulatori, che raccontano cose accadute altrove e conoscenze ansiosamente lette, pensate, masticate e poi mistificate. Conoscere le fonti è possibile, ma non praticabile su ogni specifico; viviamo tempi com-plessi, tessuti-insieme, per questo possiamo solo collaborare: veramente tutti quelli che oggi parlano di economia circolare, di management umanistico, di lean-thinking, di imprese-a-rete-simultanee-significanti, di società-della-conoscenza, di open-company, di social-recruiting dominano individualmente questa totalità di materie?

Forse non si tratta di presunzione o di tuttologia, forse si tratta di necessità, qualcuno, insomma, lo deve pur fare, sbagliando in attesa del futuro, qui ed ora, hic et nunc. Sappiamo benissimo che da qualche parte nel mondo qualcuno sta scientificamente dimostrando il contrario di quello di cui siamo convinti. E presto, subito, lo pubblicherà. È il nuovo rischio assoluto ed ultimo.
Siamo, come scrive Heidegger, gettati nel mondo, nessuno domina definitivamente le discipline del futuro e le esperienze che quotidianamente dipaniamo: siamo esseri umani e quindi curiosi, coraggiosi ma talvolta, esposti al ridicolo.
Siamo teneri-professionisti-del-futuro.

*ogni riferimento a fatti e persone reali è del tutto immaginario e nulla di ciò che è scritto è mai accaduto. I manager, come noto, sono santi ed intoccabili costruttori di sviluppo; parola di boy-scout-designer-filosofo-antropologo-regista-scrittore-speaker-a-tutto(doppio)tondo.

 

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