L’e-commerce sta svuotando anche i centri commerciali?

Lo scorso 24 novembre c’è stato il cosiddetto Black Friday, seguito dal Cyber Monday. La dimensione raggiunta da questa moda americana di recente importazione (il fatturato di quei quattro giorni si è stimato in circa 800 milioni di euro di acquisti online) è stata l’occasione per riaccendere il dibattito sul ruolo dell’e-commerce. Se ne è […]

Lo scorso 24 novembre c’è stato il cosiddetto Black Friday, seguito dal Cyber Monday. La dimensione raggiunta da questa moda americana di recente importazione (il fatturato di quei quattro giorni si è stimato in circa 800 milioni di euro di acquisti online) è stata l’occasione per riaccendere il dibattito sul ruolo dell’e-commerce. Se ne è parlato per aspetti fiscali (residenza dei giganti tech) e concorrenziali (il numero di giorni di saldi e la loro regolamentazione per i negozi fisici), ma l’aspetto più interessante è quello dell’impatto dell’e-commerce sulle possibili chiusure di negozi e attività commerciali in genere.

In altri termini, si parla di come l’e-commerce sta ridisegnando e ridisegnerà le nostre città, i nostri centri, le nostre strade. In questo dibattito sarebbe facile aderire a uno dei due schieramenti. Da un lato i fan, che incensano il livello di servizio percepito nel ricevere a casa gli oggetti, invece di andarseli a prendere, e il catalogo infinito rispetto a quello del punto di vendita fisico. Dall’altro lato i neoluddisti, che paventano la comparsa di centri città fantasma, pieni di spazi vuoti e sfitti, e più in generale di un’economia senza persone; inoltre, i posti di lavoro cancellati si traducono comunque in meno potere d’acquisto, e quindi contribuiscono a rallentare le vendite altrui.

Una storia già vista: dai negozi agli e-commerce

Trovo invece più interessante fornire un punto di vista leggermente laterale. Ho ripensato a quello che è successo alle nostre città a cavallo degli anni ’80 e ’90 e ho scoperto che negli anni ’80 l’Italia aveva tantissimi piccoli negozi: la proporzione era addirittura di un negozio ogni sessanta abitanti. Ma in quegli anni si è affermata la cosiddetta Grande Distribuzione Organizzata, cioè supermercati e ipermercati, e il numero di esercizi commerciali è crollato. Letteralmente: da oltre 410.000 nel 1981 a meno della metà nel 1995 (fonte R. Fanfani, L’agricoltura in Italia).

Che ci si creda o no, il dibattito di quegli anni ha tratti di assoluta similitudine a quello dei giorni nostri sull’e-commerce. Ci si domandava che cosa sarebbe successo alle città, ai posti di lavoro, al più generale benessere delle comunità. D’altronde, come clienti si godeva dell’avere tutto in un luogo unico e del fatto che i prezzi al consumo si abbassavano grazie a filiere più efficienti. Di tutto questo, tra l’altro, ho un ricordo diretto e personale come figlio di negoziante che, nel dibattito, si schierò contro quest’evoluzione distributiva.

Da certi punti di vista, è lecito dire che nel 2018 la tecnologia che sta alla base dell’e-commerce ha un ruolo simile, nel cambiare le nostre città, a quello che quasi trent’anni fa ebbero i metri quadri e l’organizzazione aziendale della distribuzione moderna. Con il paradosso, tipico dei corsi e ricorsi storici, che le aziende della GDO responsabili del primo attacco ai negozi sono oggi tra i maggiori critici dell’e-commerce e delle sue conseguenze.

Come uscirne, quindi?

Credo che la risposta sia molto semplice, per quanto di non facile implementazione. I negozi e i posti di lavoro più a rischio sono quelli con caratteristiche di bassa differenziazione, specializzazione e livello di servizio rispetto a ciò che è portata di un tocco sullo smartphone. Si tratta infatti delle parole chiave per emergere in questo contesto.

In alcune città, per esempio, il settore del food si sta reinventando e sta riconquistando metri quadri. Luoghi in cui mangiare cibi di ogni tipo: pasticcerie, gelaterie, gastronomie piene quasi sette giorni su sette. Le enoteche che lavorano bene fioriscono, nonostante Tannico e i suoi cugini. Vedo lo spazio che i mestieri si stanno riprendendo – o mantenendo – nonostante tutto: per delucidazioni in merito chiedete pure al mio barbiere di fiducia, in Versilia, che in mezzo a lusso e boutique si è ritagliato un suo spazio del tutto inattaccabile.

Certo, a volte non basta trovarsi al posto giusto, come settore merceologico, ma bisogna metterci del nostro alla ricerca di un valore aggiunto da trasferire al cliente. Questa fu anche la sfida di fine anni ’80, ed è la sfida che gli operatori del settore affrontano ancora oggi: se si ha una macelleria, magari allargarsi alla gastronomia; se si ha un’edicola, magari estendersi al mondo della copisteria; se si ha un negozio di vestiti, spingere molto sul rapporto col cliente.

È un processo inevitabile?

No, non lo è: non sono affatto d’accordo. A inizio anni ’90, gli ipermercati sembravano il futuro; oggi molti di essi sono stati rimpiccioliti, di fatto trasformandoli in supermercati (cioè tornando di fatto al format precedente) e dedicando molto spazio ai banchi di gastronomia (cioè puntando sul livello di servizio). Gli shopping mall tipici della cultura statunitense, che quindici o vent’anni fa sembravano in procinto di dominare il mondo distributivo, stanno sparendo a vista d’occhio; in rete si trovano varie raccolte fotografiche di mall abbandonati.

Con questo, non voglio dire che i fattori alla base del successo dell’e-commerce siano estemporanei. Ma le nostre città e i nostri negozi, se sapranno debitamente reinventarsi puntando su differenziazione e servizio, rimarranno protagonisti del nostro futuro.

 

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