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L’ X Factor delle competenze “morbide”
Solo alcuni decenni fa – ma sono decenni che sembrano secoli – quando si parlava di ignoranza il pensiero correva istintivamente agli occhi sgranati e all’espressione preoccupata dei vecchietti ai quali il maestro Manzi insegnava a leggere e poi persino a scrivere attraverso quella “scatola magica” che per migliaia di italiani era allora la televisione. La trasmissione si […]
Solo alcuni decenni fa – ma sono decenni che sembrano secoli – quando si parlava di ignoranza il pensiero correva istintivamente agli occhi sgranati e all’espressione preoccupata dei vecchietti ai quali il maestro Manzi insegnava a leggere e poi persino a scrivere attraverso quella “scatola magica” che per migliaia di italiani era allora la televisione. La trasmissione si chiamava “Non è mai troppo tardi”, un titolo e una esortazione ancora oggi attualissimi.
La storia ci insegna infatti che anche le più lunghe e prospere civiltà non sono eterne e hanno tutte vissuto drammatiche crisi – culminate spesso con la loro scomparsa – quando hanno iniziato a pensare di non avere più bisogno di imparare, di assorbire stimoli nuovi dall’esterno. Anche se secoli fa non avrebbero di certo usato questa espressione, guardarsi l’ombelico non porta mai troppo lontano.
Per gestire quindi al meglio il recente drammatico mutamento dello scenario socio-economico mondiale (non si può più chiamare crisi una situazione il cui perdurare travalica i confini della temporaneità), è assolutamente necessario un cambio di approccio ai problemi che esso ha creato perché non è possibile gestire il nuovo con il vecchio, come l’esperienza ci ha dimostrato.
In questo contesto, il focus tradizionale delle aziende sulle competenze tecniche, poi promosse Hard Skills e recentemente tornate ad un più vintage “saper fare” deve essere necessariamente rivisto e la gerarchia ribaltata a favore delle Soft Skills.
Se una volta erano i continui e sempre più rapidi progressi tecnologici ad esigere inevitabili cambiamenti nella struttura e nelle procedure aziendali, oggi è il cambio di scenario che ha obbligato molte aziende a programmare continui processi di riorganizzazione (quando non di “razionalizzazione”) spesso usati come elemento di reazione in alternativa alla mancanza di altro genere di risposte.
In questo contesto l’attività di formazione latu sensu assume un ruolo fondamentale, e nel generico concetto di formazione va inclusa la capacità di cambiare cultura, di evolversi anche intellettualmente per poter gestire con equilibrio cambiamenti la cui accettazione rappresenta una vera e propria sfida perché l’abbandono forzato di una zona di comfort genera sempre stress.
E’ allora necessario difendere e rinvigorire gli elementi “autovitalizzanti” che ineriscono al morale, allo spirito di collaborazione, all’indipendenza del pensiero, alla volontà di tutti di partecipare allo sforzo di produzione delle idee. E il solo mezzo per ottenere questi risultati è un costante processo di formazione sia di chi opera in prima persona sia – e soprattutto – di chi dirige.
Del resto il proliferare di offerte formative sui temi delle soft skills non è che una risposta alla estrema necessità del mercato del lavoro: nessun titolo di studio infatti garantisce alcune competenze indispensabili a rendere un’azienda eccellente e nemmeno la cultura è da sola sufficiente, sia se intesa come come il complesso delle conoscenze possedute da ognuno in uno o più settori dello scibile umano letterario, scientifico, artistico sia, in una forma più evoluta, se intesa come un sistema di saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti o come un’eredità storica che definisce i rapporti all’interno di un gruppo sociale e con il mondo esterno.
Serve quindi qualcosa in più e di diverso da prima, qualcosa che potremmo chiamare X Factor, prendendo in prestito il titolo del celebre talent show. Ma cos’è davvero il fattore X?
E’ la famosa “marcia in più”, quel “non so che” che fa distinguere una persona dagli altri, qualcosa di difficilmente descrivibile che rende una persona speciale rispetto al resto. E’ quasi sempre qualcosa di innato che non si può imparare con il tempo. Semplicemente un dono.
Risulta evidente però come soprattutto l’approccio aziendale debba essere molto diverso se le aziende vorranno assicurarsi prima e trattenere e motivare poi questi X Talented.
Sarà quindi fondamentale comprendere che, in tempo di crisi, il valore della fiducia dei dipendenti vale come e più del fatturato e, ancora più importante, avere il coraggio di spostare l’orizzonte temporale dell’investimento che con questi criteri darà frutti nel lungo periodo ma che in cambio garantirà risultati per il lungo periodo.
Empatia, intelligenza sociale, pensiero critico, autonomia, fiducia, flessibilità, resistenza allo stress, resilienza, gestione delle informazioni, team work, problem solving e leadership sono le nuove materie nelle quali occorre eccellere per garantire i risultati in un mondo sempre più competitivo.
Ed è per questo che ormai tutte le aziende importanti hanno investito tempo e risorse, in molti casi anche creando al loro interno Corporate University dedicate che affiancano alla formazione tecnica quella dedicata alle soft skills, una scelta di politica aziendale la cui validità trova conferma sia nell’articolo del Centro Studi dell’Istat che già a settembre del 2014 parlava di “elasticità”, “creatività” e “resilienza” quali “fattori di protezione” nei confronti della crisi e della perdita di posti di lavoro, sia nel rapporto del Censis che sempre nel 2014 sosteneva che l’innovazione ha rappresentato per la maggior parte delle aziende interpellate la più efficace risposta alla crisi.
Per farla breve, dalla crisi si esce con la capacità di soffrire, di avere idee nuove, coraggio, reinventandosi e mettendosi in discussione, anche con quel pizzico di follia che la scarsità di risorse favorisce.
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