Quasi quasi mi faccio la corporate university

Il nome, di per sè, è figo: corporate university. Una definizione che subito evoca aule supertecnologiche, con grandi vetrate, dalle quali si può osservare il prato dov’é appena atterrato l’elicottero dell’amministratore delegato, in maniche di camicia e senza cravatta, pronto a distillare alle prime linee aziendali la filosofia del business e le linee guida per […]

Il nome, di per sè, è figo: corporate university. Una definizione che subito evoca aule supertecnologiche, con grandi vetrate, dalle quali si può osservare il prato dov’é appena atterrato l’elicottero dell’amministratore delegato, in maniche di camicia e senza cravatta, pronto a distillare alle prime linee aziendali la filosofia del business e le linee guida per il futuro.

Mito o realtà? Tutte e due, come spesso accade quando in Italia si importano modelli e mode aziendali d’oltreoceano. Partiamo dai fondamentali: la corporate university (CU) o corporate academy nasce negli Stati Uniti tra le due guerre per poi conoscere un vero e proprio boom negli anni ’80. In soldoni: l’azienda decide di aprire una scuola al suo interno per la formazione continua, una struttura simil-universitaria con corsi, aule e professori. Il concetto sbarca per la prima volta in Italia nel 1957 con una delle felici intuizioni di Enrico Mattei che fonda la Scuola Superiore sugli idrocarburi, embrione dell’attuale ENI Corporate University. 59 anni dopo negli Stati Uniti si contano circa 4000 CU e in Italia una quarantina per lo più di grandi aziende (Fiat, Barilla, Ferrero, Pirelli, Illy) ma non necessariamente, come insegna il recente caso della Landi Renzo (impianti a gas per auto).

Le storiche CU americane (Boeing, McDonald’s, Walt Disney) rispetto alle italiane sono giocoforza più grandi, strutturate, spesso in grado addirittura di rilasciare lauree, master e Phd (cosa non possibile in Italia) e a volte possono accogliere, a pagamento, anche i non dipendenti (General Electric). Nelle CU italiane (Rapporto Sapienza-Assoknowledge 2015) si insegna un po’ di tutto: management (24%), corsi obbligatori per legge (16%), temi specifici come la responsabilità aziendale, etica, lingue, sicurezza (9%); la proiezione internazionale non è poderosa (dall’11 al 16%) e si potrebbe decisamente usare di più l’e-learning (38%).

La domanda principale da farsi però è un’altra: come si fa a distinguere una vera CU da una semplice scuola di formazione interna (training center) magari ben strutturata grazie all’imprenditore illuminato di turno? La discriminante, come ci spiega Emilio Bellini, vice direttore Corporate Education del MIP di Milano – è la profondità progettuale.

L’azienda in primis deve avere una chiara e condivisa strategia di medio-lungo periodo: la CU deve quindi accelerare il mutamento dell’impresa a livello manageriale in base alla strategia di business programmata. La formazione è quindi la leva degli obbiettivi: si parte proprio da questi per disegnare le aree disciplinari legate a quell’azienda. “In una CU non si insegna leadership o finanza tanto per insegnarla – dice Bellini – prima bisogna individuare quale tipo di leadership appartiene alla cultura di quell’azienda, che tipo di finanza è intrinseca a quel modello di business, eppoi si ripropone in aula; non è un caso se il 90% delle slide proiettate è fatto da zero”.

Prima di mettere in piedi una CU occorre dunque fare una mappatura delle competenze interne, valutare gli obbiettivi eppoi il management deve mettersi a tavolino con prof e docenti (di università o società ad hoc) per disegnare i corsi, che spesso richiedono agli esterni alti livelli di riservatezza per tutelare le finalità aziendali. Non ultima, la valutazione dell’efficacia formativa: capire se i manager che hanno seguito i corsi ne hanno tratto giovamento in termini di ricaduta sul business o sul modo di gestire mezzi e persone. In Italia i dati ci dicono che, anche nei recenti anni di crisi, molte grandi aziende hanno continuato ad investire in capitale umano proprio tramite le CU, che stanno diventando sempre più attraenti anche per le nostre multinazionali tascabili che fanno del veloce cambiamento la carta vincente. E per i manager cosa cambia? È vero, come dice un vecchio proverbio toscano, che “fino alla bara s’impara”, ma forse conviene fermarsi un po’ prima.

Non a caso uno dei filoni più promettenti – come conferma Lara Gadda, Head del corporate education del MIP – è proprio la gestione aziendale dell’aging. Anche qua, detto in inglese suona meglio ma in pratica significa, di fronte all’allungamento delle prospettive di vita lavorativa, capire come utilizzare al meglio le competenze di manager non più di primo pelo e con molta esperienza. In quest’ottica la loro valorizzazione come insegnanti in seno alle CU potrebbe essere l’uovo di colombo. Unico problema: per alcune aziende la gestione dell’aging comincia già coi quarantenni.

 

(Photo credits: mitsloan.mit.eu)

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