I numeri e la geografia delle dipendenze in Italia, da quelle nuove a quelle più vetuste. Ma si tratta di un universo molto più variegato di ciò che ci si potrebbe aspettare: una tendenza endemica a tutti gli esseri umani dalla quale nessuno può dirsi immune
L’uso della mindfulness per curare chi cura
Quando si parla di mindfulness, nella maggior parte dei casi non si pensa solo a un termine molto ricorrente nel nostro vocabolario degli ultimi anni, ma anche a una moda. In realtà le implicazioni e le sfaccettature di questa pratica meditativa di origine buddhista, la cui traduzione significa “consapevolezza”, sono molto più complesse e radicate di […]
Quando si parla di mindfulness, nella maggior parte dei casi non si pensa solo a un termine molto ricorrente nel nostro vocabolario degli ultimi anni, ma anche a una moda.
In realtà le implicazioni e le sfaccettature di questa pratica meditativa di origine buddhista, la cui traduzione significa “consapevolezza”, sono molto più complesse e radicate di quanto si possa credere. Per favorirne la conoscenza e la diffusione, nel 2005 è nata l’Associazione Italiana Mindfulness; da tempo le sue applicazioni sono sempre più ampie.
Antea e la cura degli operatori sanitari
C’è chi da circa 10 anni ha pensato di avvicinare alla mindfulness chi ha a che fare quotidianamente con malattia e situazioni di disagio, come operatori sanitari, infermieri, psicologi e non solo.
Stiamo parlando dell’associazione Antea, che da 30 anni si occupa di garantire assistenza ai pazienti in fase avanzata di malattia di tutte le età, dai bambini agli ultranovantenni. Una realtà formata da una squadra di oltre 100 persone tra infermieri, psicologi, operatori socio-sanitari e assistenti sociali, che oggi contribuisce ad alleviare le sofferenze di più di 20mila pazienti, tra i 5mila assistiti all’interno della propria struttura e i più di 15mila in assistenza domiciliare.
I benefici della mindfulness per chi convive quotidianamente con sofferenza e dolore sono ormai da tempo riconosciuti a livello internazionale. Si parla inoltre di effetti positivi contro stress da lavoro correlato, ansia e depressione, che portano a un aumento di benessere, qualità del sonno, empatia e consapevolezza. Fattori chiave per condurre un’esistenza serena ed equilibrata non solo nel privato, ma anche in un tipo di lavoro dove tutti i giorni si ha a che fare con situazioni estremamente critiche.
L’aspetto interessante è vedere come un’associazione che si occupa di malati in fase terminale abbia pensato e continui a pensare anche a chi invece sta dall’altra parte, ossia a chi lavora tutti i giorni con loro e le loro famiglie. Non si tratta dell’unica realtà in Italia, ma è sicuramente una delle più significative.
La “procedura” di Antea: i gruppi Balint
Quello di Antea è comunque un lavoro molto più ampio che non contempla solo la mindfulness. Ce lo spiega Giuseppe Casale, medico e fondatore dell’associazione: “Il nostro non è tanto un progetto, ma una procedura che applichiamo da almeno 10 anni, destinata a chi lavora in Antea, dagli infermieri agli psicologi, dagli assistenti sociali ai terapisti. La partecipazione è su base volontaria, ma ad oggi abbiamo raggiunto un’adesione praticamente totale”.
In che cosa consiste la procedura? “Ogni 15 giorni tutti gli operatori sono suddivisi in gruppi di 8-10 persone e sotto la supervisione di uno psichiatra raccontano il proprio vissuto. Lo psichiatra utilizza varie tecniche, tra cui quella del photo language, con la quale ciascun partecipante indica cosa vede in una determinata immagine e viene supportato dallo psichiatra nel coglierne tutte le implicazioni”.
Stiamo parlando dei cosiddetti gruppi Balint, dal nome del loro ideatore, il medico Michael Balint. Sono rivolti proprio ai medici e alle altre professioni di cura e di aiuto: puntano alla formazione psicologica, alla relazione con il paziente e a favorire il benessere lavorativo. E non ci sono solo questi momenti di condivisione: “Ogni operatore può rivolgersi quando vuole, in modo diretto e anonimo, a un coordinatore sanitario per un incontro individuale, completamente a carico dell’associazione”, aggiunge Casale.
Gli effetti benefici di questo tipo di procedura sono evidenti: “L’obiettivo principale è evitare la cosiddetta sindrome da burnout, ossia una vera e propria patologia legata a un processo stressogeno che interessa proprio gli operatori e i professionisti impegnati in attività che implicano un rapporto con il prossimo a diversi livelli, come nel caso di chi si occupa di malati terminali”.
Casale però spiega che dall’introduzione della procedura non si sono mai verificati casi di questo genere all’interno dell’associazione. L’interesse per il benessere degli operatori non è però assimilabile a una qualsiasi cura ma ha un valore molto più grande: “tutti i giorni siamo a contatto con la vita e la morte, ci interessa che gli operatori stiano bene e che vivano bene il proprio lavoro”, racconta.
Agli operatori è insomma riservata un’attenzione costante e la certezza di avere sempre dei “compagni di viaggio” anche durante il proprio lavoro: “il nostro cavallo di battaglia è il lavoro d’équipe, ogni operatore non è mai solo, sa sempre che alle sue spalle c’è un gruppo di persone”.
Le difficoltà di lavorare con il dolore
Sostenere il peso del dolore di persone malate, ma anche di chi sta loro vicino, non è un lavoro semplice; soprattutto, non si impara subito. Ne sanno qualcosa i diversi professionisti che lavorano all’interno dell’associazione: Paola Ruggeri è un’infermiera di 32 anni e quello in Antea è stato il suo primo lavoro, iniziato per caso ormai 10 anni fa; prima in struttura, ora in assistenza domiciliare: “Quando esci dall’università e inizi a lavorare ti rendi conto che è tutto diverso, questo ti destabilizza”.
L’impatto non è stato semplicissimo, considerata anche la sua giovane età, che è quella di molti suoi colleghi che lavorano in Antea. Il passaggio dalla struttura all’assistenza domiciliare, poi, non ha migliorato le cose: “Lavorare in hospice per noi è come stare in una struttura protetta. Nel lavoro a domicilio ci sono dinamiche completamente differenti, entriamo davvero ‘a casa’ delle persone”.
Eppure, con l’aiuto dell’associazione e degli altri colleghi, Paola ha imparato ad aprirsi scoprendo la mindfulness e partecipando ai gruppi Balint: “gli effetti della mindfulness sono molto soggettivi. Io l’ho fatta un paio di volte, ci sono invece colleghi che la praticano più spesso e la ritengono fondamentale. Ho trovato molto utili anche i gruppi Balint, cui partecipo una volta al mese, ogni macro-area ha il suo. Il più delle volte, più che di rilassarci abbiamo bisogno di parlare e io sono un fiume in piena. Prima interiorizzavo di più e portavo spesso il lavoro a casa, e viceversa. Poi ho capito che in un lavoro come il nostro non ci si può chiudere, hai bisogno del gruppo per non andare a picco”.
Con l’applicazione massiva di tecniche come la mindfulness e gruppi di condivisione, insomma, sono stati fatti molti passi in avanti per garantire agli operatori di lavorare nelle migliori condizioni fisiche e psicologiche possibili. Come accade in ogni lavoro, però, oltre all’impegno individuale è sempre il gruppo a fare la differenza e a dare una mano fondamentale.
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