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Marco Tarquinio, Avvenire: la solidarietà non porta rancore
“Volontariato e terzo settore hanno un’anima cattolica forte, evidente, apprezzata. Ma non è l’unica. Da sempre nel mondo del volontariato, della cooperazione, della solidarietà in generale, convivono diverse esperienze che collaborano tra loro. Diciamo che, come è naturale che sia in un Paese che ha la storia e la cultura dell’Italia, l’anima cattolica è un’anima […]
“Volontariato e terzo settore hanno un’anima cattolica forte, evidente, apprezzata. Ma non è l’unica. Da sempre nel mondo del volontariato, della cooperazione, della solidarietà in generale, convivono diverse esperienze che collaborano tra loro. Diciamo che, come è naturale che sia in un Paese che ha la storia e la cultura dell’Italia, l’anima cattolica è un’anima molto importante. Poi ci sono altre dimensioni, che a me piace dire ‘respirano cristiano’. Un tempo buono davanti a noi è possibile: bisogna saperlo interpretare con intelligenza, senza sciupare nulla di quanto di generoso è emerso tra noi.” Inizia così la conversazione con Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, il quotidiano dei cattolici italiani. Giornalista di lungo corso, esperto di politica interna e internazionale, abituato a leggere e interpretare la realtà nella sua complessità, il direttore ci accompagna in una chiacchierata, dedicata al mondo del terzo settore, in cui tocchiamo temi diversi: dall’Italia all’Europa, dal mondo dell’informazione alle occasioni da non perdere. E altro ancora.
Soltanto un anno fa denunciava la guerra in atto in Italia contro le reti della solidarietà. Oggi è ancora così?
Dicevo che è una guerra vera, ma anche che chi la vuole non la può vincere. Non è facile essere profeti su queste cose, soprattutto quando ci sono poteri arroganti e anche violenti, con capacità comunicative molto pronunciate. Però sono un cronista, un giornalista, e so che i fatti sono tenaci. E nel momento della maggiore debolezza e della maggiore fragilità del nostro sistema, come quello di questi mesi drammatici, in campo sono rimasti proprio coloro che operano nella e per la solidarietà. Voglio dire loro oltre ai professionisti, loro oltre ai medici, oltre a chi ha garantito le reti essenziali del lavoro, per esempio la filiera alimentare. È un paradosso, rispetto a quella “guerra”, una rivincita buona in questo tempo che viviamo tutti con preoccupazione e anche spavento. Speriamo di saperne fare tesoro e che la gente se lo ricordi, tutta.
In questa emergenza stiamo verificando che cosa significhi essere una comunità solidale e responsabile. Dovevamo aspettare una pandemia, una tragedia mondiale della salute?
Questa che abbiamo davanti è una grande occasione per costruire un altro equilibrio nella società, nel nostro lavoro, dentro le nostre relazioni, ridando il giusto peso e il giusto spazio a tutto. Sono crollate delle certezze, e forse ci siamo resi conto che di alcune potevamo fare a meno, di altre no. Allora abbiamo bisogno di una politica in grado di leggere questo spartito e interpretare la musica che serve per il tempo nuovo. Mi auguro che ci sia, perché stiamo mettendo in campo tante di quelle risorse, in termini di denaro, che se le usassimo per tornare dove stavamo prima sarebbe un disastro. Uno sforzo così imponente non può servire per tornare indietro, ma per andare avanti. È la grande occasione che abbiamo, una sfida come minimo europea.
Lei ha scritto che “l’Europa torna solidale”. Qualcuno avrà da ridire…
Sì, qualcuno contesta questo verbo, “torna”. Addirittura i sovranisti di casa nostra dicono “ah ma l’Europa non è mai stata solidale”. È l’esatto contrario. L’Europa è nata con una solidarietà che ricomponeva alcune delle rotture che avevano portato alla guerra. Carbone e acciaio erano due dei motivi per cui si erano accesi i conflitti, la lunga guerra civile che ha insanguinato il Novecento, il 1914 e il 1945. Due tempi drammatici e con l’intervallo della presa di potere delle dittature totalitarie. Ora quella che abbiamo davanti è dunque una fase molto delicata e importante. L’Europa (ricordiamoci da dove si partiva) nonostante le sue debolezze ha dimostrato una capacità di cercare una strada nuova. Ora bisogna percorrerla, bisogna riempire i contenuti. È già importante che la risposta non sia stata “ognuno per sé”. Che questo accada per amore o per convenienza possiamo discuterne all’infinito. C’è un tasso di convenienza, tutti si rendono conto che da soli non ce la faranno. La Confindustria tedesca ha chiesto al governo di agire perché senza la componentistica di altissima qualità prodotta dalle industrie italiane loro non possono ripartire, quindi c’è un’interdipendenza reciproca, molto forte. Però io vedo anche una condizione d’amore. È curioso che i tanto vituperati tedeschi, sia Angela Merkel che Ursula von der Leyen, e non a caso due donne, siano quelli che sanno parlare agli europei e non solo ai propri connazionali.
Due donne in due posizioni chiave in questo momento.
Diciamo che le due tedesche hanno oscurato anche quella che è l’unica latina al vertice delle istituzioni europee. Penso alla signora Christine Lagarde, che non le ha sapute trovare al momento giusto, le parole europee. Però questo è un altro dei contrappassi che stiamo vivendo in questo momento.
È cambiata la sua linea editoriale durante questa emergenza sanitaria mondiale?
Non ho difficoltà ad ammettere che, come tanti, non ero del tutto convinto che l’emergenza fosse così lancinante. Non solo noi poveri giornalisti, ma anche medici e politici hanno faticato a capirlo; alcuni anche di fronte all’evidenza non hanno voluto farsene una ragione, che bisognava lottare duramente e prenderla per quello che era: una sfida immane. Però la linea non è cambiata su un punto, perché fin dall’inizio, nonostante tutte le perplessità, noi abbiamo chiesto la via della prudenza e dell’unità. La prudenza è diventata la messa in sicurezza, l’unità rimane l’anelito che troppe volte è contraddetto dai giochi faziosi, che purtroppo si replicano anche in periodi come questi. Ci sono motivi di preoccupazione, come sempre quando si sospendono le libertà fondamentali e la vita delle persone in una Repubblica democratica. La preoccupazione è quella che tutto questo sia a tempo e che nessuno pretenda di abituarsi a una condizione limitante.
Diciamo che c’è una sottile linea di demarcazione tra l’emergenza e lo sconfinamento nei diritti personali acquisiti.
Bisognerebbe renderla molto meno che sottile questa linea di demarcazione. Deve essere chiaro a tutti che è una fase dalla quale bisogna uscire, e uscirne bene, con la saggezza necessaria per indicarci i passi, ma con molta determinazione. Uno dei presidi in questo momento è che ci sia la libertà, anche di informazione, e questo è uno dei motivi per cui noi abbiamo fatto una scelta onerosa ma necessaria dal nostro punto di vista: offrire a tutti, gratuitamente, Avvenire nella sua versione digitale, attraverso il computer.
Siamo abituati a relegare i temi legati al terzo settore in riviste o allegati ad hoc (penso ad esempio a Buone Notizie, Corriere della Sera), ma non a integrarli nei giornali tradizionali. Che cosa manca?
Io accolgo sempre con favore tutti i passi nella direzione di dare cittadinanza mediatica a quelli che non ce l’hanno, lo dico sempre a quelli che fanno la cosa giusta. Veniamo da mesi e anni di polemica contro i buonisti, di quelli che facevano del bene non per guadagnarci qualcosa e venivano accusati di essere degli affaristi, dei nemici della patria, perfino dell’umanità, alleati dei trafficanti degli esseri umani e via dicendo. Allora, va bene ogni occasione. Vanno bene anche i recinti per le buone notizie, anche se personalmente sono tra quelli favorevoli a farle correre liberamente, per la parità dell’informazione. Vediamo di essere chiari una volta per tutte: quello che manca non è né la preparazione né la voglia: c’è troppa presunzione. La presunzione che la gente voglia assolutamente il racconto del lato oscuro della realtà. “Questo è quello che vogliono i lettori, questo è quello che vogliono gli spettatori, questo è quello che vogliono gli ascoltatori”. Così ci viene ripetuto in tutte le salse. È una presunzione grave, reiterata. Bisogna disintossicare l’informazione: la realtà è molto più complessa della sua narrazione, e narrarla nella sua interezza ci fa vedere i lati oscuri che altrimenti non si vedrebbero, e tutto il bene che c’è, a volte, anche nascosto nelle pieghe nere. Ci sono pagine assolutamente luminose, che danno coraggio, voglia di intraprendere, voglia di essere solidali nella costruzione di una cittadinanza vera e nella realizzazione di un altro mondo. Per questo è importante l’informazione buona, l’informazione onesta, che non amputa nessun pezzo della realtà.
Può essere questo un momento buono, perciò, anche per un nuovo inizio dell’informazione?
Veniamo da anni di polemica verso competenze giudicate inservibili. Adesso si scopre invece che la competenza non solo vale ma è necessaria, ad esempio per il buon amministrare. Il fatto di studiare, di prepararsi, di accumulare esperienze e di metterle al servizio del proprio lavoro e della propria città, della propria nazione, della propria comunità, è molto importante. Questo conta molto anche per l’informazione. In questo periodo si è “scoperto” che le informazioni sensate e utili provenivano da quelli che spesso sono stati liquidati come media tradizionali; che le bufale ignobili messe in circolazione da informatori d’occasione, all’inseguimento di farmaci miracolosi, sono state smascherate proprio anche grazie a un’informazione solida e capace. Le tentazioni di piegare i fatti a una visione di comodo esistono anche nei media tradizionali, lo vediamo tutti i giorni, però lì c’è il lavoro professionale serio di équipe giornalistiche consapevoli di rendere un servizio ai propri ascoltatori e lettori. Questo è importante che continui e riprenda vigore. È un momento buono per ridare il giusto posto a tutti. Il che non vuol dire che non debba esserci anche un protagonismo dal basso nell’informazione, ma che bisogna presidiare quelli che io chiamo i pozzi di acqua potabile dell’informazione, quelli che sicuramente non ti avvelenano il sangue e non ti infangano la vista, distorcendotela o addirittura oscurandotela.
È una riscoperta di competenze anche al servizio del bene pubblico. Da più parti emerge la voce di ripensare e rilanciare il Servizio Civile.
Questa è una battaglia antica. Credo che debba esserci una capacità della comunità di far percepire ai più giovani che la cittadinanza è una simmetria tra diritti e doveri, e che dare un tempo della propria vita per un servizio reso alla collettività sia qualcosa di buono, utile, profondamente istruttivo. Mi interessa comunque che il dibattito sia libero, anche di quanti sostengono posizioni leggermente diverse. Ma molti cominciano ad avere l’idea che il Servizio Civile vada fatto lievitare come strumento buono e utile per la nostra Italia. Una difesa non armata, non violenta, totalmente al servizio. È molto importante questo dibattito, è limitato alle nostre pagine anche se siamo riusciti a coinvolgere dal Presidente del Consiglio al Ministro delle Politiche giovanili, anche livelli di governo, parlamentari che stanno intervenendo. Vuol dire che è un tema vero e serio. Credo che ci sia un sentimento vasto nel Paese, ma pochi si preoccupano di interpretarlo in questo momento. Nel 2018 lo propose un uomo che era stato un militare, il generale che presiede l’Associazione Nazionale Alpini, parlando addirittura di alpini senza stellette: con la penna ma senza stellette, gli alpini civili, in borghese, per salvare lo spirito di altruismo e di solidarietà che c’è tra gli uomini delle montagne che hanno servito in divisa. È molto bella come immagine, e vorrei recuperarla.
In copertina Marco Tarquinio, direttore di Avvenire
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