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Prodotte e abbandonate: le mascherine italiane non possono competere con la Cina
La riconversione per la produzione di mascherine ha dato respiro a diverse imprese pugliesi (come la Baritech, ex Osram) che ora non possono reggere il confronto col mercato: “Noi dobbiamo usare materie prime certificate e pagare adeguatamente gli addetti”. La testimonianza di Leo Caroli (presidente task force per l’occupazione della Regione Puglia) e Francesco Centrulli (imprenditore e dirigente di Federmoda CNA Puglia).
Produrre mascherine non è un affare. Almeno per tante aziende pugliesi che si sono cimentate nella riconversione produttiva e l’hanno abbandonata, o hanno chiuso i cancelli ora che il picco emergenziale è passato e si è tornati all’ordinaria importazione dall’Asia.
Quest’ultimo è il caso della Baritech, azienda del settore meccanico collocata nella zona industriale di Bari, che ha cessato la produzione, appunto, di mascherine, e il 24 febbraio ha licenziato 135 lavoratrici e lavoratori non avendo alcun piano industriale alternativo.
Dalle lampadine alle mascherine, con la crisi nel mezzo: storia della Baritech, che ora rischia 135 licenziamenti
La storia dell’impianto produttivo è davvero singolare. In origine, l’insegna che campeggiava all’ingresso era quella nota e prestigiosa della Osram; dalle sue macchine venivano fuori i filamenti destinati all’incandescenza che ha illuminato per decenni le nostre case.
Destino ha voluto che l’azienda barese patisse i primi effetti della transizione energetica avviata dall’Unione Europea ben prima dell’irruzione di Greta Thunberg sulla scena politica. A partire dall’1 settembre del 2012, infatti, le lampadine a incandescenza non si possono vendere e importare nel mercato comunitario, con l’intento di ridurre i consumi energetici e l’emissione di anidride carbonica.
La lunga crisi produttiva della Osram termina all’indomani dell’esplosione della pandemia da COVID-19, quando l’Italia, al pari di molti altri Paesi occidentali, scopre di aver “appaltato” alle industrie asiatiche l’intera produzione di mascherine classificabili come Dispositivi di Protezione Individuale. Con il virus in circolazione ne servono milioni al giorno e nelle prime settimane dell’emergenza non se ne possono importare, quindi bisogna trovare chi può produrne.
La Baritech, nuova denominazione della ex Osram, può farlo e dai suoi macchinari iniziano a venir fuori rotoli di meltblown: il tessuto-non tessuto necessario al confezionamento delle mascherine chirurgiche. A innescare la produzione è il contratto sottoscritto con la struttura commissariale per la gestione dell’emergenza guidata da Domenico Arcuri, i cui effetti si sono esauriti il 31 dicembre 2021. Chi attendeva il rinnovo della commessa, a partire dai lavoratori, è stato deluso dal generale Francesco Paolo Figliuolo che “non l’ha prorogata, probabilmente perché l’emergenza iniziava a scemare – ipotizza Leo Caroli, presidente della task force per l’occupazione della Regione Puglia – e bisogna ritornare a fare le gare” tra fornitori concorrenti. La sua è solo un’ipotesi, perché la struttura del generale “non ha mai fornito una spiegazione, a noi o all’azienda”.
Fatto sta che il 31 marzo è stato sottoscritto, presso il ministero del Lavoro, l’accordo che garantisce ai 135 dipendenti della Baritech la cassa integrazione straordinaria fino al 31 dicembre. Un tempo, si spera, sufficiente a far maturare almeno una delle “manifestazioni d’interesse emerse in questi mesi, anche da parte di aziende importanti – ancora Caroli – nessuna delle quali, però, prevede il reimpiego di tutti i lavoratori”.
Salve in pandemia, in fallimento subito dopo: le aziende riconvertite a produrre DPI non possono competere con i colossi asiatici
La critica conclusione della riconversione della Baritech avalla la rilevazione statistica del Centro Studi di Confindustria Dispositivi Medici che fa emergere, nel 2020, un calo delle esportazioni, -5,3%, e un incremento delle importazioni, +4,9%. La pandemia non è stata un buon affare per il Made in Italy: la produzione si è contratta del 13% e il fatturato ha raggiunto 6 miliardi a fronte di importazioni per un valore superiore a 8,5 miliardi.
A beneficiarne più di tutti, almeno in valori percentuali, è stata la Corea, con un +310%; mentre la Cina ha consolidato e incrementato del 15% il flusso di merce inviata in Italia. Il maggiore incremento lo hanno fatto registrare le importazioni dall’Asia di tamponi, reagenti e dispositivi per la diagnostica in vitro, aumentate del 476%.
Il paradigma esemplificativo di queste variazioni di mercato sono sempre le mascherine. “A marzo 2020 ci siamo trovati ad avere urgenza di un prodotto introvabile sul mercato e richiesto da tutto il mondo”, afferma Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria Dispositivi Medici, che indica in questa rilevazione empirica la decisione dei ministeri della Salute e dello Sviluppo economico di investire nella riconversione di centinaia di imprese.
Il Politecnico di Bari, sollecitato dalla Regione Puglia, si è messo in scia e ha attuato il progetto RI.A.PRO., acronimo di RIconversione Aziendale per la PROduzione di DPI. L’obiettivo dell’azione coordinata dal Laboratorio Sostenibilità è fornire indicazioni utili alle aziende interessate a convertire la produzione relativamente ai materiali da utilizzare, le procedure di verifica e certificazione, le autorizzazioni all’uso e alla commercializzazione. Tutto a titolo gratuito.
Il 31 maggio 2020 lo staff del Laboratorio guidato dal professor Michele D’Assisti tira una linea sul lavoro svolto e registra 300 contatti da parte di aziende interessate alla produzione di mascherine filtranti, quelle cosiddette “di comunità”, e DPI. 74 di quei contatti si sono trasformati nell’avvio della produzione in impianti che, per la maggior parte, riuscivano a produrre non più di 3.000 mascherine al giorno. Solo 3 di quelli censiti da RI.A.PRO. avevano una capacità superiore ai 100.000 pezzi giornalieri.
Quest’ultimo è un primo fattore di criticità rilevato: “Circa un terzo delle aziende ha una dimensione tale da rischiare la chiusura nel medio periodo soccombendo rispetto al mercato globale, basato su un economia di scala con prezzi molto concorrenziali”. Di qui “la necessità di creare filiere di produzione e approvvigionamento su base territoriale regionale o nazionale”, continua il rapporto, anche con l’obiettivo di “acquisire la disponibilità di materia prima di ottima qualità in Italia”. I cui costi, si legge ancora, “sono decuplicati rispetto al periodo ante COVID-19, modificando il rapporto costi/benefici”.
Francesco Centrulli, titolare della Gordon Confezioni riconvertita: “Mascherine? La Cina è tornata e non possiamo competere”
Sono bastati un paio di mesi per far emergere le criticità di un processo di riconversione la cui contabilità finale risulta assai difficile da comporre.
Tra chi ci ha provato c’è la Gordon Confezioni di Cassano Murge, piccola impresa attiva dal 1952 che impiega 15 lavoratrici e lavoratori nella produzione di maglieria per il proprio marchio e per alcuni di quelli tra i più blasonati d’Italia. La loro è stata una delle prime esperienze avviate in Puglia ed è durata un paio di mesi: “Più che una riconversione, la nostra scelta è stata frutto di un adattamento temporaneo utile a superare il blocco della produzione imposto con il primo lockdown”.
A raccontarcela è Francesco Centrulli, dirigente di Federmoda CNA Puglia alla guida dell’azienda di famiglia, entrato in contatto con la Protezione Civile regionale e con il team di RI.A.PRO. nei giorni immediatamente successivi all’avvio della fase emergenziale acuta. La procedura di certificazione è stata molto rapida e ha garantito alla Gordon un vantaggio competitivo, tant’è che “nel giro di pochissimi giorni siamo stati contattati da soggetti come ENI e SNAM che ci chiedevano 7-800.000 mascherine al giorno a fronte delle 1.500 che eravamo in grado di produrre”.
Francesco Centrulli si fa quindi promotore di un accordo con altre aziende tessili per arrivare a garantire almeno 4.000 pezzi al giorno, il cui costo massimo arrivava a 1,10 euro e che venivano vendute a un prezzo compreso tra 1,15 e 1,30 euro. Un’enormità rispetto alle “mascherine cinesi che costavano pochi centesimi ed erano vendute a 1 euro alla Protezione Civile”.
È il motivo di una così breve durata dell’adattamento temporaneo: “Nessuna azienda italiana può reggere la concorrenza di prodotti realizzati a quel costo, perché noi dobbiamo utilizzare materie prime certificate e pagare adeguatamente gli addetti alla lavorazione”. E alla Gordon è andata meglio di tanti, che “hanno ordinato macchine per la produzione di mascherine in piena emergenza e non le hanno praticamente utilizzate perché sono state consegnate 3-4 mesi dopo la riapertura delle importazioni dalla Cina”.
L’azienda di Cassano Murge ha tessuto 50-60.000 mascherine prima che “arrivassero decine di container bloccati in Cina dall’esplosione della pandemia”, riallineando anche questo business emergente alle ferree regole della globalizzazione commerciale.
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Leggi il mensile 110, “Di tutte le Russie“, e il reportage “Aziende sull’orlo di una crisi di nervi“.
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