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Musica in streaming: quanto lavoro sparisce se i cantanti fanno i discografici di se stessi?
Lo streaming può dare lavoro come gli eventi live stroncati dalla pandemia? La parola a due esperti del settore, Stefano Senardi e Paolo Agosta.
Il COVID-19, come è ormai tristemente noto, ha devastato gravemente il settore della cultura e in particolare della musica.
I concerti live, unica fonte di reddito degli artisti grandi e piccoli dopo la crisi irreversibile della discografia tradizionale (cd e dvd), hanno subito un congelamento, come in un lungo interminabile inverno che non accenna a terminare. E come se non bastasse le grandi major, quelle che negli anni passati potevano garantire un lavoro stabile contrattualizzato, hanno perso la leadership del mercato discografico a favore dei principi dell’web, Apple, Netflix, Amazon, Spotify, per i quali l’unica variabile indipendente è il profitto, ma non certo il lavoro.
Una diagnosi spietata, si dirà, che tuttavia viene addolcita, e di molto, dai dati che giungono dalla FIMI, la Federazione Industriale Musicale Italiana. Secondo una visione assai ottimistica la FIMI sostiene che, come l’araba fenice dalle ceneri, la musica è resuscitata grazie allo streaming.
Già da anni l’industria della musica veniva trainata dal digitale, ma oggi il dato che fa più impressione è che l’82% del digitale è rappresentato dallo streaming, che sempre analizzando i dati FIMI ha generato 68 milioni di euro. Si noti bene che il balzo avviene non a caso alla fine del 2019, quando sul pianeta fa la sua comparsa il Coronavirus. Fino a prima della pandemia lo streaming era ben piazzato, ma toccava al massimo il 66% del totale. Senza timore di essere accusati di cinismo si può dunque affermare che il virus, come in altri settori, ha fatto del gran bene all’industria dello streaming.
“Lo streaming elimina le mediazioni e diminuisce l’occupazione”
La stessa cosa, ci fanno osservare gli addetti ai lavori, non la si può dire per il mercato del lavoro che reggeva l’industria musicale. Qui la mitologica araba fenice non ha resuscitato nuove frontiere di lavoro. Forse ha fatto nascere alcune professionalità, come gli ingegneri del web, ma ancora una volta la tecnologia, più che creare nuove opportunità, ha mietuto vittime.
Ne è convinto Stefano Senardi, produttore discografico di razza, talent scout con una trentennale navigazione nel mondo della musica, dalla lontana presidenza della Polygram alle lezioni al Master in Comunicazione Musicale per la discografia, fino alla recente produzione di documentari musicali per Sky Arte.
“Non c’è bisogno di essere degli economisti per capire che lo streaming, che pure è davvero la nuova frontiera della musica, non è un sistema che può creare nuova occupazione, o più semplicemente sostituire in termini di occupazione – ad esempio – i concerti dal vivo. Questa è una pura illusione. Tanto per capirci: se salta un concerto di Vasco Rossi salta il lavoro, sia pure temporaneo, per un migliaio di persone. Se quel concerto lo fai in streaming te ne bastano una trentina, di persone. Anche perché cambiano molte cose, soprattutto nella comunicazione”.
In che senso? “Saltano molte mediazioni, muta radicalmente il ruolo delle major. Gli artisti attraverso lo streaming si rivolgono direttamente al loro pubblico, e come già sta avvenendo le figure professionali si restringono sempre di più. Vasco Rossi diventa il discografico di se stesso. Tanto per essere più espliciti, in tempi di pandemia è finito, per ragioni di sicurezza, il gigantismo nei concerti. Ma questo porta anche a una diminuzione dei fatturati”.
Un quadro deprimente per le migliaia di lavoratori che, con competenze diverse, lavorano sul pianeta musica. “Un quadro realistico che potrebbe mutare, se i governi di tutto il mondo avessero la forza di aprire una contrattazione con i giganti del web. Oggi la chiave del problema sta lì e soltanto lì. I grandi player come Apple, Amazon, Netflix, solo per citarne qualcuno, oltre a non pagare le tasse nei singoli Paesi in cui operano, non hanno mai guadagnato tanto come negli ultimi due anni. Dobbiamo guardare in faccia la realtà e pensare a una negoziazione con questi big. Quello che torna indietro da quei colossi verso le società in cui operano è troppo poco sia in termini di reddito che di lavoro”.
Paolo Agosta, MB Produzioni: “Molti artisti colpiti dalla crisi. Lo streaming non crea il lavoro degli eventi dal vivo”
Paolo Agosta, direttore artistico della MB Produzioni, con una lunga esperienza nello streaming, ci racconta di un fenomeno che forse è rimasto un po’ sottotraccia nei giorni della pandemia.
“A seguito del congelamento dei concerti dal vivo, unica fonte di reddito dopo la crisi della discografia, molti artisti per compensare le perdite hanno deciso di dedicarsi all’insegnamento o di fare i turnisti sulla pubblicità. Ora io penso che questa sia una buona cosa, la scuola e la formazione è quello di cui abbiamo bisogno, ma è comunque il segno che la crisi non c’è soltanto per le figure professionali che reggono l’impalcatura del mondo della musica da dietro le quinte, ma anche per gli stessi protagonisti”.
Ma quali sono le figure professionali che stanno dietro le quinte dello streaming? “Dipende. Intanto c’è da dire che oggi un artista di strada può piazzarsi davanti al suo telefonino e, senza bisogno di un regista, di ingegneri del web, di tecnici delle luci, del palco, dello studio di registrazione e del montaggio, può produrre una performance artistica e magari ottenere più visualizzazioni di un artista famoso. Ma a parte questi casi, che pure esistono, è evidente che lo streaming, per quanto sia di un evento importante con artisti noti, non può creare più di tanto lavoro. Le figure professionali sono quelle di un concerto dal vivo che in alcuni casi non ha bisogno del regista. Sì, ci possono essere figure nuove come gli ingegneri del web, ma alla fine le figure sono sempre le stesse, soltanto che il numero degli occupati e il tempo di lavoro è certamente minore di un evento dal vivo”.
Immagino che siano minori anche i compensi. Su questo punto Paolo Agosta non può rispondere, visto che è il direttore artistico di uno streaming ancora in lavorazione, ma basta indagare un po’ per sapere che in uno streaming di medio livello con artisti noti un tecnico viene pagato 300 euro per tutta la giornata dell’evento in studio televisivo, o 150 euro più Iva nel caso di un contributo singolo.
In molti casi un lavoro in streaming dura un solo giorno, quindi è più precario dei lavori stagionali. L’altra grande difficoltà, spiega Agosta, è legata agli sponsor, e dunque al finanziamento degli eventi. Nel web gli sponsor si muovono ex post, ovvero soltanto dopo aver monitorato i social. Non avviene, come in passato, che gli sponsor in alcuni casi finanzino un evento sulla base della notorietà dell’artista.
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