L’8 settembre 2020 sul “The Guardian” è comparso il primo articolo complesso scritto da un software: GPT-3. Indaghiamo il suo funzionamento e le potenziali conseguenze per la filiera dell’informazione, con l’opinione di Lazzaro Pappagallo, segretario di Stampa Romana, e Michele Mezza, docente dell’Università Federico II.
Iperconnessi per diritto
Il professor Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta, parla di dipendenze dal digitale: “I ragazzi stanno benissimo, la connessione è un loro diritto”. Ma la scuola e gli adulti non hanno capito che stanno cambiando
Questo articolo è un estratto della rivista cartacea di SenzaFiltro “Nel lavoro vince chi sfugge“, di ottobre 2024.
Prima di parlare con Federico Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta che da molti anni si occupa di dipendenze patologiche e adolescenti difficili (ha fondato nel 2009 il primo ambulatorio in Italia sulla dipendenza da internet) ho studiato e letto di tutto. Ero molto condizionata da quello che mi rimbomba nelle orecchie e da mesi: “Siamo tutti dei tossici digitali, in particolare i bambini e gli adolescenti, e ancora non abbiamo idea dei danni che la dipendenza dai dispositivi provocherà alla nostra mente”.
In realtà negli Stati uniti ci sono molti studi che indagano il livello di distrazione provocato dai social network; stanno anche studiando gli effetti sulla memoria e sullo stress, e a quanto pare alcuni tra i più grandi innovatori tecnologici americani mandano i figli in scuole steineriane, dove sono sicuri che non toccheranno mai un tablet, un telefono o un pc, proprio per evitare gli effetti catastrofici che potrebbero avere sul loro cervello. Siamo tutti iperconnessi, non prestiamo più attenzione a chi abbiamo davanti e spesso diamo più importanza alle notifiche che alle persone che dividono con noi una cena o una serata. Quindi?
Quindi nella mia testa giravano molte domande per il professor Tonioni. A che livello di dipendenza siamo destinati, se non invertiamo la rotta? A che livello di dipendenza è destinata mia figlia, che ha solo nove anni e vive in un Paese – anzi in un mondo – dove ormai ci sono più schede SIM che persone? Alla fine non gliene ho posta nessuna, perché sin dal primo minuto il professore ha stravolto tutti i miei dubbi, attribuendo un senso diverso alla dipendenza da internet e ai problemi che vivono i ragazzi. Una voce fuori dal coro, e di molto; e noi, genitori superconnessi di figli iperconnessi, dovremmo ragionare sulle nostre responsabilità – e anche su quelle della scuola.
Federico Tonioni: “I ragazzi non sono tossici digitali. Quelli sono gli adulti”
“Se vogliamo capire quanto è diffusa la dipendenza da internet – inizia il professore – basta prendere un Frecciarossa o una metropolitana. Siamo in piena pandemia, o meglio, possiamo considerare l’uso dello smartphone una pandemia, ma la dipendenza è un concetto diverso: io per primo cerco il mio cellulare cinque volte al giorno pensando di averlo perso e con l’ansia, però non dobbiamo drammatizzare, perché le dipendenze patologiche (quelle da sostanze, quelle da gioco d’azzardo e quelle da internet) in realtà nascondono sempre un’angoscia più profonda. Se questa angoscia profonda non è strutturata, quella dipendenza è più che altro un’abitudine, che non va demonizzata. Bisogna intervenire solo se c’è dolore mentale e, per gli adolescenti, solo nel caso in cui si manifesti un ritiro sociale.”
Io immagino che il ritiro sociale sia legato agli effetti negativi dell’iperconnessione, ma il professore mi ferma subito: “L’iperconnessione per gli adolescenti è un diritto. Dal mio punto di vista non sono dei tossici digitali, i veri tossici sono gli adulti. I ragazzi sono meravigliosi e hanno più di un motivo per essere arrabbiati, perché noi adulti stiamo lasciando loro un mondo surriscaldato, dove tutti i giorni si parla di conflitto nucleare o si prevedono nuove pandemie. Un mondo dove il lavoro, se non se lo inventano, non esiste, e dove circolano migliaia di fake news. internet è un moltiplicatore di relazioni, e i ragazzi hanno il diritto sacrosanto di connettersi”.
In effetti i bambini nascono in un ambiente multimediale, circondati da schermi interattivi e da genitori che attribuiscono un enorme valore agli smartphone. Io per prima lo faccio, e il professor Tonioni mi fa notare che “i bambini assorbono quel valore e imparano alla velocità della luce. Il linguaggio per immagini, nel loro caso, prevale sulle parole, e il vero problema è che a questo profilo cognitivo la scuola non si è adattata. Gli zaini dei bambini sono spesso dei trolley, alla faccia della rivoluzione digitale. Per non parlare di come vengono veicolati i contenuti”.
Mi fa un esempio quasi banale, ma che fa capire subito (e guarda caso per immagini) la distanza tra la scuola e gli studenti: “In camera nostra c’era quasi sempre un crocifisso, diversi poster, forse una chitarra. Se guardiamo la camera di un ragazzo di oggi, trabocca di computer, schermi, caricabatterie, console; e invece le classi scolastiche sono sempre uguali. E continuiamo a diagnosticare disturbi dell’apprendimento che sono, dal mio punto di vista, il tentativo di mettere in atto un nuovo modo di apprendere, dove le immagini prevalgono sulle parole. I neuropsichiatri infantili hanno fatto diagnosi su quanto i bambini si annoiano a scuola, e la noia, che è figlia della rabbia, è la base per far nascere le psicopatologie. I bimbi a scuola si annoiano; ma basterebbe ogni tanto aprire un tablet, usare i visori immersivi, come fanno già tante scuole all’estero”.
I dispositivi? “Tossici solo se sostituiscono i genitori”
Devo interromperlo, sono perplessa. Di recente non si fa altro che parlare dei pericoli dell’uso eccessivo di questi dispositivi, e utilizzarli anche nella quotidianità scolastica non mi sembra una buona idea. La domanda è inevitabile: proprio non vede pericoli nell’uso eccessivo dei dispositivi tecnologici?
“Se il bambino è solo sì, ma il problema non è il dispositivo. Quante volte abbiamo dato in mano ai bambini il tablet o la Nintendo per riposarci? Troppe. Quante volte, se dobbiamo viaggiare, li attacchiamo ai dispositivi perché non ci rompano le scatole? Lo abbiamo fatto tutti, non è una tragedia, ma altra cosa invece è giocare insieme ai nostri figli con questi strumenti. Se il tablet sostituisce la funzione genitoriale tutti i santi giorni allora è tossico, ma se è uno strumento di condivisione aiuta a crescere”.
Quindi tutto l’allarmismo che si fa in questo periodo in cui si dice che i dispositivi tecnologici incidono sulla memoria, sulla qualità del sonno, è infondato? Non posso fare a meno di chiederlo.
“Tutte cavolate, me lo permette? Il neurone è la cellula più plastica che abbiamo a disposizione, più capace di fare adattamento; la mente è un’orchestra con strumenti diversissimi, e non importa se lavora di più uno strumento piuttosto che un altro, basta che la musica sia armonica. L’evoluzione passa per la plasticità delle nostre cellule, e io non trovo i ragazzi peggiori di come eravamo noi alla loro età”.
Se i genitori devono imparare a perdere
Dal 2009, da quando è stato fondato l’ambulatorio sulla dipendenza da internet, di studi ne sono stati fatti molti, e per Federico Tonioni ormai è chiaro che chi ha sintomi di iperconnessione e ritiro sociale in realtà viene da una situazione famigliare difficilissima. Bisogna separare l’uso del telefonino e dei social (e i tipi di bullismo che colpiscono l’adolescente che si espone) dai ragazzi che non entrano in adolescenza, che si ritirano a dodici anni, e passano le loro giornate su giochi sparatutto.
“Questi ragazzi sono pieni di rabbia – continua il professore – e la detonano sparando tutto il giorno. È una rabbia che ha radici profonde, è energia che non è mai diventata esperienza, perché vengono da famiglie che li hanno trattenuti. Il gaming è più complicato dello smartphone, perché se ne può abusare anche in età minore. Lo smartphone si concede quando il ragazzo è già adolescente, ha già competenze e anche fantasie sessuali; invece il gaming è una zona di comfort che permette di non pensare agli altri, al fatto di essere stato preso in giro, alla vergogna”.
Tonioni sostiene senza mezzi termini che, dai racconti dei ragazzi, i più costanti atti di bullismo vengono dai professori, che impongono tre interrogazioni al giorno, quattro compiti in classe a settimana e i compiti delle vacanze. “Il professore alle medie deve affrontare ragazzi che possono deludere le aspettative, che possono opporsi e competere. Sono nell’età delle fantasie sessuali e delle disforie di genere. Questa generazione avrà le sue difficoltà, ma è più evoluta di noi perché l’ipertesto di internet non l’ha manipolata: ha promosso la capacità di avere pensieri propri”.
Il professore sorride e continua: “I bambini vanno lasciati in pace, invece scarichiamo su di loro ipocrisia e ambiguità. E gli adolescenti hanno bisogno di fiducia, non di controllo. I bambini non vanno ridotti all’obbedienza, altrimenti rischiano di accumulare tantissima rabbia, e la rabbia non manifestata è pericolosissima. Le regole vanno date all’interno di trattative, non di una sfida tra genitore e figlio dove il genitore pensa sempre di essere il più forte. Trattative dove i figli ci fregano, barano, mischiano le carte, ma nella trattativa abbiamo l’occasione di giocare con loro. Ogni genitore ha un figlio ideale in mente, e con quel figlio noi dobbiamo fare i conti per tutta la vita. Nessuno nasce gratis: tutti abbiamo una missione, un incarico che i nostri genitori ci danno in modo inconscio”.
Io gli dico che con ogni probabilità non sono nulla di quello che si aspettavano i miei genitori, anzi che soprattutto mia madre mi avrebbe voluto molto diversa, e lui con grande soddisfazione mi dice: “Bene, allora lei è cresciuta, ma molto spesso questo non succede, e i figli rimangono succubi di quello che i genitori immaginano per loro. Quando invece, davanti a un gesto spontaneo dei nostri figli, ci chiediamo: ma da chi ha preso?, allora in quel momento il bambino è sé stesso e smette di essere come i suoi genitori lo hanno immaginato. Dobbiamo avere fiducia e chiedere scusa quando sbagliamo; poi il mondo sarà dei nostri figli, non nostro”.
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