C’è una leggenda che circola tra i corridoi de La Stampa di Torino. Si narra che nei lustri passati, al momento di licenziare un direttore, l’editore fosse solito recapitare l’ultimo stipendio in contanti dentro ad una busta, assieme ad un biglietto che raccomandava di consegnare la busta stessa, vuota, al portiere al momento di abbandonare […]
Opinionismo di massa sui social? Il caso del golpe fallito in Turchia
Perché per essere “intellettuali” sui social basta avere carisma
“Questa è la mia opinione e quella di milioni di persone al mondo”, “lo ha scritto una giornalista nota in Italia”, “l’ho letto su una testata autorevole e importante”. Sono queste le giustificazioni che l’intellettuale da social ha per le sue opinioni, qualsiasi sia l’evento che sta commentando. Sì, perché sui social siamo tutti intellettuali. Con le opinioni degli altri, però. La dittatura del “l’ho visto”, “sì, ma io ho sentito”, “guardate che hanno scritto che”. Ovvero, informarsi per procura. Quasi nessuno ne esce indenne, da chi risulta “laureato presso l’università della vita” a chi può vantare master e dottorati prestigiosi. Funziona più o meno così: qualcuno condivide uno status, articolo, o più semplicemente l’opinione di una personalità ritenuta autorevole, e un certo numero di persone la ricondivide, fa retweet, cita, riponde, finché da semplice opinione diventa quasi verità assoluta. È successo con l’allarme terrorismo in Europa, continua a succedere da una settimana circa dopo il fallito golpe militare in Turchia.
Di botto, il popolo dei social, che fino a qualche ora prima si era rivelato esperto in strategie di intelligence, multiculturalismo e la lotta al terrorismo, la notte del 15 luglio si è scoperto esperto di Turchia e di storia turca. Già dalle prime ore – quando i canali italiani hanno dato notizia dei carrarmati che bloccavano due dei tre ponti sul Bosforo ad Istanbul – su Facebook abbiamo letto i primi “meglio i militari che Erdoğan”, “la cacciata del dittatore”.
Quando noi qui ad Istanbul cercavamo ancora di capire cosa ci facessero i soldati sui due ponti, quando la tv turca titolava “ponte sul Bosforo chiuso al traffico”, i media italiani urlavano già al colpo di stato riuscito, alla proclamata legge marziale e al coprifuoco imposto per le strade turche.
Giornalisti in tv a gridarsi a vicenda “ma tu cosa ne sai della Turchia!” per contestare le reciproche dichiarazioni. Era chiaro già da lì che i giornalisti italiani non avevano ben chiara la storia politica del Paese di cui stavano discutendo, ma non importa, perché l’opinionista da social è acritico e continua a riportarne pedissequamente le opinioni giustificandole con “lo stanno dicendo in tv dei politologi, mica io”.
Sì, perché in questi casi, purché sia politologo, l’ospite in studio diventa fonte di verità. Non conta che poi sia esperto di storia politica dell’America Latina e non di quella turca come il caso richiederebbe, è pur sempre un politologo, per cui si può riferire quello che dice. Non importa se poi non siamo in grado di verificare se ciò che dice sia giusto o sbagliato, l’ha detto il politologo. Perché il problema dell’opinionista da social è proprio questo: non ha gli strumenti critici, né le conoscenze per accertare la veridicità di quello che sta scrivendo. Si affida alle opinioni di qualche personaggio autorevole, non importa se sia un esperto nel campo o meno.
C’è stata però una novità con il caso turco. Se nel commentare i fatti di terrorismo in Europa, si parlava di Paesi che, in un modo o nell’altro, ogni italiano conosce un minimo, per quanto riguarda la Turchia, parliamo invece di una realtà sconosciuta alla maggior parte degli italiani, di un Paese la cui capitale Ankara viene spesso confusa con Istanbul, la cui storia viene spesso sintetizzata con l’ espressione “mamma li turchi”. Attenzione, non si tratta solo di una critica all’ignoranza e ai pregiudizi verso questo Paese: c’è qualcosa di più profondo.
Il non conoscerne la storia, il sentimento popolare, le differenze culturali, porta spesso a una visione distorta dell’attualità turca: in quanti, ritenendo erroneamente che i turchi siano un popolo arabo, alla notizia del golpe hanno subito pensato alla primavera araba? In quanti hanno valutato quanto stava succedendo in Turchia alla luce di quanto era successo in Egitto o in Tunisia, per esempio? In quanti, siano essi politologi, giornalisti, esperti da social, hanno commentato gli eventi del 15 Luglio parlando di laicità garantita dai militari opposta all’islamizzazione imposta da Erdoğan? Quanti di questi sanno che colui il quale dalle autorità turche viene ritenuto ad oggi il mandante del golpe, Fethullah Gülen, è un imam dalle vedute religiose molto conservatrici e che pertanto c’entra molto poco con la laicità?
In quanti, anche in queste ore, continuano a far passare per “dittatore” qualcuno che- secondo il sentimento turco- è più semplicemente un “capo carismatico” capace di muovere folle e far scendere gente in piazza contro i carrarmati? E che la definizione “capo carismatico” non ci faccia pensare a nulla di necessariamente negativo, perché secondo la tradizione occidentale potrebbe anche essere così, ma ricordiamoci che stiamo parlando di un altro Paese, con un’altra storia, un’altra cultura in cui le cose possono essere viste diversamente, dove “capo carismatico”, “democrazia” e “volontà del popolo” possono convivere non implicando necessariamente l’asservimento e la sudditanza di quest’ultimo.
A nulla serve porsi queste domande: quando l’intellettuale opinionista da social si trasforma in moralizzatore seriale, non c’è verità e ricerca storica che tenga contro le sue massime, specie se le ha dette il politologo su Sky.
Leggi anche
Scarica il podcast della puntata. Essendo da sempre un grande appassionato di calcio, che ho seguito e a modo mio giocato sin da bambino, pensavo sarebbe stato molto difficile intervistare un grande campione senza cadere nella tentazione di farmi raccontare aneddoti, curiosità e momenti speciali vissuti in campo. Di materiale ce ne sarebbe stato tanto visti gli anni […]
Nell’era di Amazon e dei market aperti sempre e ovunque, qui il mercato paesano resiste grazie alla forza della tradizione e all’arte del saper vendere, pur tra un nuovo abusivismo e un’anarchia senza precedenti. Siamo in Veneto, dove tutt’oggi sono diecimila gli operatori nel settore dei mercati e delle fiere. Solo Padova ne conta tremila, […]