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Oscar Galeazzi, Lavoro Turismo: “Non c’è solo fuga dei cervelli. Sparirà il 50% dei lavoratori del turismo”
La grande fuga. Potrebbe essere questo il titolo della conversazione che abbiamo fatto con Oscar Galeazzi, amministratore delegato di Lavoro Turismo, l’istituto di ricerca e collocamento del personale. Ed è sicuramente questa la notizia che ci svela il general manager, impegnato da anni nel settore della ristorazione e dell’accoglienza alberghiera. Il COVID-19, si sa, ha […]
La grande fuga. Potrebbe essere questo il titolo della conversazione che abbiamo fatto con Oscar Galeazzi, amministratore delegato di Lavoro Turismo, l’istituto di ricerca e collocamento del personale. Ed è sicuramente questa la notizia che ci svela il general manager, impegnato da anni nel settore della ristorazione e dell’accoglienza alberghiera.
Il COVID-19, si sa, ha colpito il settore del turismo in modo drammatico, con effetti peggiori di quelli provocati dalla crisi petrolifera degli anni Settanta, dalla crisi che dilagò dopo l’abbattimento delle torri gemelle negli Stati Uniti nel 2001, e peggiori anche della pesantissima crisi finanziaria del 2008. Si parla di 29 miliardi di minori introiti, di tracollo dell’occupazione e di declino di un settore chiave della nostra economia. Ma Oscar Galeazzi quando parla di grande fuga non si riferisce soltanto alle grandi catene alberghiere, ma a quella diffusissima realtà del mondo del lavoro che regge l’intero settore: a quella comunità di cura, come l’ha definita sul nostro giornale il sociologo Aldo Bonomi, composta da camerieri, baristi, cuochi, che sono ad esempio l’ossatura del settore della ristorazione, definito da Oscar Farinetti lo scrigno d’oro dell’Italia.
Ci parli di questa fuga. È una notizia interessante e inedita. Molti pensano che in tempi di crisi siano tutti attaccati al proprio lavoro. Non è così?
Si parla molto di fuga di cervelli. Ma è il momento di pensare anche alle problematiche della fuga di specialisti del turismo. E le assicuro che non è un fenomeno da sottovalutare. Dal sondaggio che abbiamo fatto tra i lavoratori del turismo emerge, come le dicevo, un dato più che allarmante: oltre il 50% delle persone toccate dal campione di 1376 intervistati sta valutando di cambiare settore, per esigenze professionali e/o economiche. Il 6% lo ha già deciso. È un valore elevatissimo, certamente condizionato dalla particolare situazione, ma rivela comunque la forte propensione di molte persone che hanno subito la situazione di debolezza e fragilità che ha toccato il turismo, la ristorazione e l’ospitalità.
Quindi lei mi sta dicendo che non si esagera quando si dice che il turismo sarà la vera vittima del coronavirus?
È così, purtroppo. Il turismo pagherà il conto più salato della crisi da COVID-19. Il fatto che il settore sia caratterizzato dalla presenza di imprese di piccole e medie dimensioni nelle situazioni di crisi rende il rapporto datore di lavoro-lavoratore ancora più precario, non per volontà del datore di lavoro, ma per la fragilità dell’impresa stessa. È un segnale di allarme che dovrebbe interessare molto le istituzioni, le imprese e le associazioni di categoria. Il settore già in momenti di precrisi metteva in evidenza forti carenze di personale qualificato, in particolare nei settori della ristorazione ma non solo. Questa fuga creerà situazioni gravi di cui ancora non ci rendiamo conto. Quando un professionista di 30/40/50 anni cambia settore ne derivano fenomeni preoccupanti: difficilmente quel professionista ritornerà poi nel suo settore di origine; queste persone qualificate non saranno sostituite nel breve e medio periodo. E le grandi catene come i piccoli ristoratori si troveranno in ginocchio.
Che cosa spinge gli specialisti del settore a cambiare tipo di lavoro?
Sono tante le cause. La precarietà, le condizioni di lavoro, gli stipendi bassi. Il comportamento paradossale di alcuni piccoli imprenditori poi non contribuisce a frenare questa voglia di fuga. Spesso per risparmiare accade che gli imprenditori della ristorazione chiedano al dipendente di fare il cameriere, di fare il barista e magari di lavare anche i piatti. Nell’emergenza post-COVID è probabile che i lavoratori per necessità accettino condizioni di lavoro peggiori, ma gli imprenditori sbagliano se pensano che sia questa la strada per ridurre i costi. Questa miope dequalificazione fa a pugni con il dato incontrovertibile che sta emergendo: i professionisti sono merce rara e se devono scegliere tra la dequalificazione e la fuga scelgono la seconda. Anche perché in molti casi si tratta di occupazione stagionale. Noi avremmo bisogno di flussi di persone qualificate, ma nel settore della ristorazione, ad esempio, i flussi rischiano di spegnersi. Prenda la figura del cameriere. Non c’è consapevolezza del fatto che il cameriere è ormai diventato la colonna portante del ristorante. I piatti non li vende il cuoco, ma il cameriere. Una volta si diceva: quel ristorante è un po’ trasandato ma si mangia bene. Oggi non è più così, se non c’è un cameriere che ti cura, che ti espone i piatti, che ti consiglia, la ristorazione non funziona. Tenga conto che dopo il COVID molti ristoranti non aprono perché non trovano personale qualificato.
Quelli che fuggono dalla loro professione dove vanno?
Alcuni si illudono, magari a quarant’anni, di trovare un altro lavoro in settori diversi, ma molti vanno all’estero. A me risulta che a Londra ci siano tra i 500 e i 600 italiani che lavorano nel nostro settore. E vuole sapere qual è il guaio? Noi esportiamo molti specialisti in tutta Europa, ma non ne importiamo. Lei mi chiedeva che cosa penso della politica sull’immigrazione: io credo che sia sbagliata, se penso a come è stata gestita nel nostro settore. Noi dovremmo importare professionisti dall’estero. L’immigrato è una risorsa, ma va gestito. Tra l’altro molti albergatori hanno ormai superato il pregiudizio che li spingeva a non assumere gente di colore nei posti chiave. Anzi, mi è capitato di parlare con parecchi ristoratori che erano intenzionati ad assumere immigrati come camerieri, ma l’ostacolo era che le autorità non li facevano venire in Italia.
Nel vostro sondaggio avete sentito anche i piccoli imprenditori del settore. Che cosa ne è uscito?
Numerosi imprenditori hanno dichiarato di essere in difficoltà. Quasi un 40% si dichiara a rischio chiusura, un 9% sta valutando la chiusura dell’azienda. Risposte certamente condizionate dalla situazione di stress e preoccupazione presente al momento della rilevazione, ma che devono mettere in allarme la politica. Se lo Stato non supporta le aziende (con i fatti, e non proponendo ulteriori debiti), oltre a un’elevata mortalità di imprese avremo tanti imprenditori che allungheranno le fila delle persone che cercheranno un’altra occupazione o un altro settore operativo. È doveroso aggiungere che in molti decessi il COVID-19 è stata una concausa, e come è successo con le persone anche le imprese che chiuderanno per gran parte lo faranno per una loro debolezza strutturale, già presente prima della crisi. I piccoli imprenditori che diventeranno dipendenti avranno in molti casi difficoltà nel reinserimento lavorativo. Sostenere le imprese in difficoltà contribuisce a mantenere l’occupazione di altre persone e costa meno che sostenere poi gli imprenditori verso nuovi percorsi professionali.
Qual è il giudizio degli imprenditori rispetto ai provvedimenti presi dal governo Conte?
Come ho scritto nell’introduzione al sondaggio, gli imprenditori sono molto critici verso le azioni intraprese dal governo e le strategie attivate, spesso non chiare se non contraddittorie. Questo ha influito negativamente, sia sul lato professionale sia, molto importante, sul lato psicologico. Non scordiamoci che gli imprenditori e i dirigenti sono innanzitutto persone, con le difficoltà e le debolezze di tutti, e che in Italia fare l’imprenditore comporta molta energia e resilienza. In un contesto caotico non si può colpevolizzare solo la politica, perché parte del caos è derivato da coloro che hanno aiutato i politici a prendere decisioni: esperti sanitari, economisti, politici locali. Di certo si è parlato troppo e con troppe voci; ma questa è una prerogativa tutta italiana.
Un’ultima questione: la formazione. Come è stata gestita nel vostro settore?
Mai come in questo periodo il web ha messo a disposizione delle persone così tante risorse per poter valutare, aggiornare e formare, gran parte delle quali a titolo gratuito. Sono nate molte e interessanti e valide maratone di webinar che hanno affrontato diverse tematiche. Numerose le informazioni su comunicazione, vendita, ricerca lavoro, valorizzazione del proprio profilo professionale/brand, attività social; molte meno le informazioni tecniche specifiche della professione, che comunque per gran parte sono già da tempo a disposizione delle persone. A fronte di una forte disponibilità di prodotti e servizi, solo una percentuale minoritaria ha utilizzato parte del tempo in modo professionalmente produttivo. Gran parte delle persone ha reagito con un atteggiamento passivo, rinunciatario e di attesa. In tanti altri casi si è partiti con buone intenzioni, per poi perdersi per discontinuità e per maggiore attenzione in aspetti più ludici e meno impegnativi. C’è da rilevare che noi italiani eravamo in forte ritardo in merito a un approccio di corsi e attività online, ma anche al semplice utilizzo di computer. Questa critica riguarda purtroppo anche i giovani, espertissimi nell’utilizzo di smartphone, social e giochi, molto meno in applicativi utili per il lavoro e lo studio.
Photocredits: Reuters
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