Nonostante l’interesse dei privati e i tardivi aiuti statali, il settore musicale e dello spettacolo resta in piena agonia. Alcuni dati per inquadrare la situazione.
Paolo Pieri: se in azienda l’organigramma piatto è un buon sintomo
L’AD di Pieri Group, intervistato da SenzaFiltro, parla di etica d’impresa: “Formazione, welfare e reinvestire nelle persone sono le chiavi del successo di un’azienda. Così oggi fatturiamo il quintuplo di chi, tempo fa, faceva cinque volte i nostri guadagni”
“Non volevo fare l’imprenditore. Mi è semplicemente capitato.”
Paolo Pieri non parla come un capo d’azienda. Forse anche per questo non lo sembra. Maglione arancione sopra una camicia chiara, occhiali dalla montatura spessa, voce gioviale ma dal tono quieto e composto: “Chiunque può vendere prodotti per l’igiene come facciamo noi; trovare un produttore e andarli a rivendere. La differenza, quello che alla lunga premia, è il valore umano che crei. Non solo per il cliente, ma per tutta la catena del valore, a partire dai tuoi collaboratori”.
Parole strane per un ex commerciale come lei.
Non saprei. Forse. Il fatto è che ho smesso presto di fare il venditore vero e proprio. Esattamente trent’anni fa, quando avevo appena 24 anni e mio padre mori all’improvviso, lasciandomi a capo dell’azienda che aveva fondato partendo da un garage, e che allora contava un piccolo gruppo di cinque persone – tra cui alcuni che non avevano alcuna intenzione di accettarmi come nuovo “capo”. Così come io non avevo voglia di fare l’imprenditore.
Che cosa le pesava del ruolo?
Sarà che non me lo aspettavo; sarà che non avevo studiato e a scuola non ero neppure tanto bravo; sarà che alcuni dipendenti avevano il doppio della mia età; ma all’inizio fu molto dura. Per dire: una persona cominciò a chiedere ferie a Ferragosto, che per noi è il momento più importante dell’anno – cosa che non aveva mai fatto con mio padre. Qualcuno chiese l’auto aziendale ultimo modello. Un altro insistette per far assumere suo figlio, e poi se ne andò con lui per fondare un’azienda concorrente. Ricordo che io e mia sorella dovevamo farci in quattro per coprire anche le loro mancanze. Non nego che pensai anche di mollare, di vendere l’azienda.
Invece ora è a capo di 58 collaboratori più 26 commerciali. Fu allora che capì che ogni gruppo vuole un leader?
Direi di sì, anche se quella parola non esisteva allora e non mi è mai molto piaciuta. Certo: ogni caporeparto è leader del proprio gruppo, ma ogni collaboratore è come se avesse la direzione generale del proprio lavoro. Quello che conta è sapersi prendere la responsabilità, ma chi guida l’azienda deve essere in grado di dare l’opportunità a tutti di esercitarla, quella responsabilità. Credo nell’organigramma piatto.
Che cosa vuol dire, nel concreto?
Che incoraggiamo sempre tutti a esprimere le proprie idee: dalle più piccole alle più grandi. Che io personalmente e il direttivo siamo sempre fuori dall’ufficio per raccogliere impressioni, fare riunioni, parlare con le persone conoscendole davvero una a una – e non solo per nome. Che ogni anno facciamo preparare da una società terza questionari anonimi per capire il livello di soddisfazione dei nostri lavoratori e come migliorare. Che incoraggiamo tutti a far sapere, pure qui volendo anche in via anonima, se ci sono dei problemi o dei rischi, senza mai punire chi lo fa o ammette un errore.
Sembra quasi che gestire le persone della propria azienda sia il primo compito dell’imprenditore.
In un certo senso lo è, e penso lo sarà sempre di più. Credo che già ora occupi circa il 35-40% del mio tempo. E anche molte risorse. Mettiamo a disposizione dei dipendenti moltissimi strumenti di welfare: gratifiche per i nuovi nati in famiglia, per la laurea dei figli, per la pensione, per i lutti famigliari. E poi permessi per usare i mezzi aziendali per scopi personali, un enorme investimento per avere una nuova bella sede e per i migliori strumenti digitali. Ma soprattutto tanta, tanta formazione. Io stesso mi impegno per farne di continuo: è la chiave per crescere e riuscire ad affrontare nuove sfide.
E i dipendenti sono felici di partecipare?
Diciamo di sì, in media. Certo, c’è chi fa più il difficile. C’è chi fa i corsi ma poi torna a fare le cose come prima. E non lo nego, a volte ti viene da chiederti chi te lo fa fare di investire così tanti soldi nello sviluppo e nel benessere delle persone nella tua azienda. Ma alla fine bisogna ricordarsi delle cose che vanno bene; che funzionano proprio grazie a questi investimenti – e che poi sono la grande maggioranza. Dare fiducia, alla fine, rende, perché crei relazioni di valore. È così che riesci ad avere margini solidi anche vendendo prodotti che spesso non hanno un grande valore aggiunto, come facciamo noi.
Anche con i clienti persegue la stessa filosofia?
Assolutamente. L’altro giorno ero a un convegno di imprenditori. Durante lo spazio del mio intervento ho chiesto se volevano sapere dei nostri piani di scontistica: tutti hanno risposto di sì. Allora io ho detto che di sconti non ne facciamo, ma che potevano vedere da soli se avevamo alzato i prezzi quando tutta la concorrenza lo faceva, o li abbiamo tenuti stabili. Sarebbe stato facile fare dei margini allora, ma noi preferiamo creare un rapporto di fiducia con i clienti, che sanno di trovare con noi non solo un servizio efficiente e un consiglio professionale, ma soprattutto di potersi fidare.
Che cosa dicono i suoi colleghi quando vengono a sapere di queste cose?
Mi sembra che mi prendano sempre per matto. Ma le persone sono la cosa più importante per un’impresa, e bisogna dar loro fiducia, altrimenti non te ne daranno a loro volta. E non basta farlo ogni tanto: è un lavoro continuo. Ma se oggi siamo la seconda azienda italiana per il servizio di prodotti per l’igiene al settore Ho.Re.Ca., credo che lo dobbiamo soprattutto a questo. Quando le persone si candidano da noi sanno che troveranno le migliori condizioni lavorative sul mercato, e questo ci permette di attrarre e trattenere i migliori. Alla fine, l’unica cosa certa di una azienda è che prima o poi fallirà: compito dell’imprenditore è rimandare il più possibile quel momento. E il modo migliore per farlo è lavorare ogni giorno affinché le persone che entrano in contatto con la tua azienda, siano essi clienti, fornitori, commerciali o collaboratori, siano felici di averlo fatto.
Ma ora che la carenza di lavoratori si fa molto sentire gli altri imprenditori stanno cominciando a investire con serietà nelle persone?
Se devo dire la verità, non mi sembra. Mi pare che la logica dominante sia ancora anzitutto quella del profitto. Per me è sempre stato importante, ma non è mai stato al primo posto. Per tanti anni personalmente ho portato a casa 30.000 euro lordi: molto meno di diversi miei commerciali – e anche di qualche dipendente. Perché reinvestivo tutto nell’azienda, e soprattutto nelle persone. Oggi posso dire che fatturiamo cinque volte di più rispetto ad aziende che un tempo fatturavano cinque volte più di noi.
Da dove le è nata questa attenzione per le persone?
Credo di dovere molto ai miei genitori, che erano molto credenti e mi hanno sempre trasmesso un’incrollabile fiducia nel prossimo. Ricordo che quando ero bambino ospitavamo regolarmente una prostituta, togliendola dalla strada; e ricordo che mia madre ricevette persino minacce di morte per aver cercato di aiutare delle persone in difficoltà. Oggi cerco di mettere in pratica i loro insegnamenti: fare in modo che chiunque venga in contatto con la nostra azienda sia felice di averlo fatto. E di realizzarmi tramite la realizzazione degli altri, come diceva mio padre.
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Foto di copertina di Gianmaria Zanotti, su corriereromagna.it
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