I professionisti della parola russa sono coinvolti in una guerra parallela contro la lingua dittatoriale che distorce la realtà e mette a rischio l’anima di un popolo intero. Alcune tra le voci più cristalline del dissenso.
Ucraina, la guerra è un lavoro e il giornalismo è uno scambio
Il compito del reporter negli scenari di conflitto e la trasformazione della società ucraina sotto le bombe, con un Paese diviso in due che ha convertito anche il lavoro alla causa della resistenza armata.
Di Bengasi ricordo il frastuono. Quello delle piazze, in tumulto, percorse da una tensione a cui era impossibile sottrarsi. E così è stato in Siria, così accade sempre quando l’indescrivibile, travolgente energia liberata da un popolo in rivolta ti trascina in una dimensione ideale, collettiva, quasi incompatibile con il tuo ruolo di osservatore. Se qualcuno mi chiedesse se la democrazia esiste, se gli ideali più alti cui tendiamo in fondo non siano che utopie, risponderei con convinzione di sì: ho visto uomini e donne morire per un’idea, sacrificarsi per un principio, rinunciare a tutto, giocarsi tutto per la loro idea di libertà. Erano lì, la libertà e le idee e la democrazia: materiche, condensate in quelle torride piazze come brina in un campo di girasoli. Bastava allungare una mano, per toccarle. Non c’è che un amaro antidoto alla tentazione di fondersi, trasformarsi, credere in quegli slogan e in ciò che vedi: l’esperienza. Che ti ricorda, anche quando non vorresti, che quella brina potrebbe evaporare al primo sole, che quell’entusiasmo travolgente rischierà d’essere annientato dagli intrighi, masticato dalla corruzione, umiliato dal potere, che spesso torna uguale a se stesso dopo indicibili massacri.
Ma ricordo anche l’incredulità. Lo stupore. Le donne e gli uomini di Donetsk, nel Donbass, che otto anni fa rifiutavano di credere alla devastazione del loro bellissimo aeroporto, il più bello d’Europa, appena terminato. Rifiutavano di credere ai primi corpi martoriati, ai carri armati in città, infine ai missili, alle bombe, alla guerra civile, alla barbarie. Non è possibile, mi dicevano. Olona, Yuri, Ivan, Alla. Non nel nostro continente, nella nostra città, nel nostro secolo. Avevano l’espressione smarrita di una persona catapultata in un’epoca lontana, primitiva, da una crudele macchina del tempo. Inseguiti da una propaganda atroce, bellicosa, che li voleva invece protagonisti, determinati artefici della tragedia incombente sulle loro stesse vite.
Non era che il primo atto: il seme. Di una guerra mai finita, atrocemente ignorata. Lasciato a maturare sotto un sottile velo di menzogne, innaffiato da interessi finanziari, opportunità economiche, riscaldato dalla cecità condivisa delle diplomazie occidentali e dalla criminale sottovalutazione di un leader, Putin, che si sapeva disposto a tutto.
E così il primo dovere di chi si arroga il diritto, e insieme il privilegio, di raccontare questi eventi, è quello di condividerli con i protagonisti, per quanto possibile. Tempi, spazi, vita. Come puoi raccontare dei dubbi di una persona, delle sue paure, se non ti vengono affidate. E come possono esserti affidate se non sei con lei, se non condividi almeno per un momento il suo cibo, la sua coperta, il suo terrore. Se non restituisci qualcosa di altrettanto personale, soprattutto.
Perché questo è il giornalismo sul terreno: uno scambio. Diversamente non avrai altro che frasi di circostanza, aride constatazioni, qualche dato, numeri. Ma – e questo è davvero difficile – senza mai perdere la consapevolezza del proprio ruolo: senza mai dire hai ragione, senza prendere parti, anche quando la tentazione è forte. A dirlo, in Libia o in Afghanistan, ti trovavi con un kalashnikov in mano, perché quello era l’unico modo di dimostrare che non stavi mentendo. Sono qui per capire. Sto cercando di capire. Ti ascolto. Questo è tutto quel che puoi dire.
Vita e ruolo dei reporter in zone di guerra
Ci si muove come fantocci, alla guerra. Sempre. Così colmi di bisogni. Informazioni da verificare, mezzi di trasporto improbabili, collaboratori a volte improvvisati. Nel Congo devastato dall’ennesima strage, un mattino, io e Paul Conroy trovammo una macchina con un autista: doveva portarci al fronte di Kiwanja. Partimmo con la nostra bandiera, PRESS, attaccata a un ramo che sporgeva dal finestrino per schiantarci dopo meno di un chilometro contro un masso sul lato della pista. Scoprimmo così che l’autista era un professore di francese che mai aveva posseduto o guidato un’auto, e che solo la guerra aveva costretto a improvvisarsi autista con quella del cugino, sparito chissà dove, per raccattare qualche soldo, sfamare la famiglia.
Il conflitto armato cui assistiamo oggi in Ucraina non è diverso: è solo più visto, mostrato. Impone le stesse condizioni, lo stesso urgente adattamento per chi lo vive. La mente risponde sempre con una velocità sorprendente: la prima sirena che annuncia il bombardamento imminente t’inquieta, della decima a malapena ti accorgi perché è alle esplosioni che badi, e fino a quando la terra non trema, i muri non oscillano, continui a fare quello che stai facendo, vuol dire che sono lontane. Lo stesso fanno gli uomini, le donne, i bambini intorno a te. Non è coraggio, non c’entra nulla con l’eroismo: è adattamento. Probabilmente non sono passate 24 ore dal tuo arrivo.
Non è vero, però, il contrario: tornare a casa, alla pace, alla normalità è il problema. Perché il cervello non ha un interruttore, non puoi semplicemente impostarlo su una funzionalità diversa. Continua, certe volte molto a lungo, a funzionare come se ti trovassi ancora in quel contesto. E così annaspi nel vuoto: dopo lunghi periodi trascorsi in zone di crisi, niente di quello che ti circonda è in più in grado di attivarti. La percezione della normalità, per chi torna, è quella di una realtà ovattata in cui accadono solo cose di nessuna importanza. Noiose, o ridicolmente inutili. Il litigio di tua figlia con la compagna di classe, un brutto voto, l’auto abbandonata in zona di sosta per una settimana, cosa sono a confronto della percezione costante, continua, dell’imminenza della morte a cui ti sei abituato? Com’è possibile partecipare a una riunione di condominio quando due giorni prima eri con dei volontari ucraini sulla linea del fronte, determinati a morire per difendere il proprio Paese? C’è da impazzire. La verità è che sei un estraneo, a te stesso e agli altri. Completamente disfunzionale. Il tuo unico desiderio è ripartire immediatamente.
Le due realtà dell’Ucraina
È in questo stato d’animo che scrivo queste parole. L’Ucraina da cui sono appena tornato può essere sostanzialmente divisa, per un reporter, in due realtà distinte.
La prima è quella delle zone che vengono colpite di rado, o con minor frequenza. In questo contesto un giornalista si trova letteralmente circondato da civili che si sono riorganizzati in funzione della guerra. I ristoranti preparano pasti per i militari al fronte, giovani manager organizzano e gestiscono centri di raccolta di ogni tipo di materiale, i meccanici si sono convertiti in produttori di piastre antiproiettile, una giovane metallara e uno studente di giurisprudenza partono per Karkhiv o Mykolaiv con rifornimenti per l’esercito, un ingegnere navale lavora a un rifugio atomico nelle catacombe, un pensionato e suo nipote recuperano gli animali abbandonati nelle zone sotto fuoco, una guida turistica ha trasformato il suo ufficio in un deposito di armi, munizioni, biscotti e pacchetti di medicazione. Sono alcuni esempi: la società ucraina si è subito convertita allo sforzo bellico nella sua totalità. Le storie ti vengono addosso da sole: basta uscire di casa, parlare con la prima persona che incontri. Finisci per sentirti parte di una cosa così grande, epocale: eccole, le idee che si condensano. Ecco la brina.
L’altra realtà è quella delle città e dei villaggi sotto fuoco costante, quella del fronte. Incontro due donne, Olga e Katia, appena scappate da Kherson. Hanno preso due macchine, ci hanno appiccicato sopra due fogli a righe su cui c’è scritto grosso bambini. E sono partite. Due donne con 14 bambini a bordo. Hanno attraversato check point russi, e poi la linea del fuoco, e poi sono state recuperate e scortate a Mykolaiv da un gruppo di soldati, e qui accolte da un gruppo di cacciatori ucraini organizzati in milizia paramilitare. Questi omoni enormi, con baionette americane al fianco, le consolano con una dolcezza insospettabile, fatta di silenzi, sguardi, lievi carezze, mentre loro abbracciano i bambini a grappoli e piangono di felicità e disperazione insieme. Perché Mykolaiv non è la salvezza. Le esplosioni sono costanti, la terra vibra, quando trema devi cercarti un muro, star lontano dalle finestre. Ma qui sei a casa: puoi fidarti di chi ti circonda. Qui non ti uccidono a sangue freddo, non ti torturano, non sparisci.
Questo, purtroppo, è il vero compito di un giornalista in questa e altre guerre. Raccogliere prove, testimonianze circostanziate, dei delitti commessi. Dei crimini a danno dei civili. Perché il sospetto, fondato, è che nel contesto ucraino il massacro di Bucha non rappresenti un caso isolato, ma sia piuttosto la prima evidenza di un metodo, di una strategia. Quella del terrore. La stessa in cui Siria, Etiopia, Afghanistan, Sudan, per citarne alcuni, continuano ad affondare. Dimenticati da tutti? No. Perché in ognuna di queste guerre lontane dai riflettori operatori di ONG e freelance continuano a tornare, a lavorare, a rischiare, a raccontare quando gli è concesso di farlo, nella consapevolezza che ogni voce, ogni vita, ogni vittima ha la stessa dignità, mentre il terrore un unico volto. Lo stesso di cui, ora che è vicino, percepiamo lo sguardo.
Leggi il reportage “Lavorare con il nemico“, e il mensile 111, “Non chiamateli borghi“.
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In copertina: Mosul, Iraq: i pozzi nella periferia della città sono in fiamme a causa dei bombardamenti. Foto di Ugo Lucio Borga/SixDegrees
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