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Partite Iva ricche: per il coronavirus è una colpa
L’Italia è una Repubblica fondata sulle Partite Iva. Secondo i dati Eurostat, nel 2019 i lavoratori autonomi registrati in Italia erano circa cinque milioni: oltre un quinto di tutti gli occupati a livello nazionale e quasi un sesto su scala europea, dove il nostro Paese è il primo in classifica per liberi professionisti. Un primato […]
L’Italia è una Repubblica fondata sulle Partite Iva. Secondo i dati Eurostat, nel 2019 i lavoratori autonomi registrati in Italia erano circa cinque milioni: oltre un quinto di tutti gli occupati a livello nazionale e quasi un sesto su scala europea, dove il nostro Paese è il primo in classifica per liberi professionisti. Un primato che però non riusciamo a mantenere quando si parla di sostegni e tutele. Ne è l’emblema l’ormai celebre chimera del bonus da 600 euro, neppure paragonabile ad alcune delle misure attuate dagli altri Paesi europei. Primo fra tutti il contributo una tantum di 5.000 euro stanziato in due giorni dalla Germania, che può arrivare a cifre ancora superiori per chi ha dipendenti a carico.
L’unica misura stabilita finora dal governo italiano a sostegno dei lavoratori autonomi, invece, non solo – come dichiarato dagli imprenditori stessi – è una cifra pressoché inutile per aiutarli a rimanere a galla, ma non abbraccia nemmeno l’intera categoria. Per ora, infatti, il bonus è richiedibile da professionisti e aziende con reddito 2018 di massimo 35.000 euro o compreso tra 35.000 e 50.000 euro, qualora dimostrino di aver subito una perdita di almeno il 33% nel primo trimestre 2020.
La categoria dei non (o forse) beneficiari corrisponde a un’enorme platea di lavoratori di ogni settore della nostra economia, dai professionisti con decenni di lavoro alle spalle a giovani startupper la cui lungimiranza rischia di essere messa a repentaglio dalla mancanza di garanzie per il futuro. Abbiamo intervistato due rappresentati di queste categorie per capire come stiano affrontando questa situazione – tanto inedita quanto indesiderata – e quali siano le loro concrete necessità per ripartire.
Reinventarsi e innovare nell’emergenza. Ma servono fondi
Una delle principali strategie adottate in questi giorni di blocco forzato da molti lavoratori è quella di pensare autonomamente un piano B, nell’attesa che i prossimi decreti facciano luce su quando e come potranno ripartire le singole categorie. In un contesto in cui le parole chiave sembrano essere “reinventarsi” e “riproporsi”, quindi, le agenzie di marketing e comunicazione dovrebbero essere tra le più quotate del momento. Ma non è proprio così.
«Dopo le ultime dichiarazioni rilasciate dal Presidente Conte, lo scorso 27 aprile, ci è chiaro che molti dei nostri clienti non apriranno prima di giugno. È normale perciò che, in un momento in cui gli imprenditori devono fare i conti per restare in piedi, ci pensino due volte prima di acquistare servizi come quelli di marketing e rebranding, che seppur necessari oggi passano in secondo piano rispetto ai costi di manutenzione, utenze e risorse umane. Che si tratti di PMI o grandi aziende più strutturate, anche chi vorrebbe abbracciare la nostra offerta, oggi come oggi non è detto possa farlo». A parlare è il giovane triestino Daniele Bonnes, fondatore della startup Ono, nata nel marzo 2018 per offrire soluzioni tecnologiche e innovative per tutte le fasi della comunicazione aziendale: dalla gestione dei contenuti grafici via remoto alla creazione di originali prodotti concreti, come schermi e ologrammi da vetrina o essenze per il marketing olfattivo, che permette di aumentare in maniera completamente nuova la customer experience dei clienti.
Anche Ono, come praticamente tutte le attività, a causa del blocco produttivo delle aziende, da inizio marzo sta registrando una drastica inflessione del fatturato. Ma non si è mai fermata. Fondatore e collaboratori sono riusciti infatti ad andare avanti creando dei prodotti completamente nuovi che fino a un paio di mesi fa non avrebbero mai pensato di produrre, perché, come dice lo stesso Bonnes, «è proprio dai grandi traumi che possono nascere le rivoluzioni».
Nonostante la modalità inedita dello smart working – con tutte le implicazioni del dover lavorare distanti dai colleghi ma vicini a figli o genitori – hanno creato a tempo record un nuovo catalogo dedicato al tema della sicurezza e dell’igienizzazione. Senza mai dimenticare, però, il loro core business iniziale. Ecco dunque che sono nati, ad esempio, il termoscanner contactless con telecamera a infrarossi per monitorare le alterazioni della temperatura in meno di un secondo, già richiesto dalla Croce Rossa di Monza, e il dispenser con schermo digitale integrato, tramite cui le aziende possono comunicare i propri messaggi ai clienti mentre attendono in fila di igienizzarsi le mani. Il tutto, però, autofinanziandosi completamente e senza la garanzia che i propri clienti possano continuare a lavorare nei prossimi mesi.
«Avendo spostato le nostre soluzioni innovative dal campo della comunicazione a quello dell’igiene e della sicurezza stiamo ottenendo grandi soddisfazioni, nonostante il fatturato si sia comunque ridotto almeno del 40%». Se da un lato, inoltre, persino chi è chiuso continua ad avere delle spese da onorare, chi decide di innovare, per farlo, deve sostenere anche importanti investimenti. E gli aiuti per andare avanti in una situazione di tale emergenza restano una goccia nell’oceano. «Per fortuna la nostra regione ha previsto dei sostegni per l’abbattimento del 20% sul canone di una locazione. Ma per il resto al momento non abbiamo alcuna altra garanzia. C’è la possibilità di richiedere i famosi 25.000 euro in prestito dalle banche, che però non essendo a fondo perduto andrebbero comunque a sommarsi ad altri finanziamenti che avevamo già aperti. Infine, ho richiesto i 600 euro per le partite Iva individuali, ma non so ancora se e quando mi verranno erogati.»
Gli aiuti di cui avrebbero bisogno aziende come la sua, secondo Bonnes, dovrebbero essere globali e strutturali. «È vero che il nostro fatturato ci posiziona tra le startup più performanti sul territorio nazionale, ma al momento stiamo attingendo esclusivamente alle nostre risorse, senza la certezza di riavere degli utili a medio lungo termine. Sarebbero state necessarie delle misure pertinenti alla differenza tra fatturato dello scorso anno e quello di questi mesi di chiusura, che ci finanziassero a fondo perduto per colmare le perdite subite. Solo così avremmo avuto la garanzia di lavorare con serenità. Inoltre, la maggior parte dei nostri clienti non solo non riesce a evadere gli ordini precedenti il lockdown, ma non sa nemmeno se potrà mai riaprire, visto che con i bonus previsti si coprirà a malapena un paio di affitti. Ed è chiaro che, oltre al profondo dispiacere, ne risentirebbe tutta la filiera di servizi collegata, a cui noi stessi apparteniamo».
Fatture ridotte a un quarto per non gravare sulle aziende: una scelta etica che non paga
La necessità di misure mirate e che tengano conto di tutte le realtà operative è condivisa anche dalla dottoressa Amalia Falcone, avvocata romana con una carriera di quasi trent’anni alle spalle. «A differenza di molte altre categorie, la mia è una figura tradizionale che – al di là di passare dallo studio allo smart working – non permette di reinventarsi. Occupandomi di diritto del lavoro, però, in questi mesi non ho mai interrotto la mia attività, pur affrontando tematiche diverse dal solito. Ora, infatti, devo sostenere le aziende soprattutto in merito agli strumenti alternativi con i quali si trovano ad aver a che fare per fronteggiare l’emergenza, o consultarmi con i sindacati riguardo alle nuove procedure prestabilite dal governo».
Nonostante la sua attività sia dunque più che mai utile in questo periodo, non solo sono cambiati gli argomenti e la modalità di lavoro, ma si è ridotto drasticamente anche il fatturato. «Lavorando come consulente per attività e società sportive – tutte chiuse e senza prospettive di riapertura in vista – al momento non me la sento di chiedere un contributo professionale ai miei clienti. O, per lo meno, se emetto una fattura lo faccio tenendo conto che si tratta di aziende ferme e con i dipendenti in cassa integrazione. Riduco quindi la parcella a un quarto rispetto ai costi che avrebbe avuto in tempi normali». Riposizionarsi su parametri di emergenza è, a suo dire, un suo dovere. Quello che non trova assolutamente giusto, però, è che siano gli stessi professionisti a partita Iva a doversi «autolimitare per evitare di gravare su altri cittadini, senza alcun sostegno dello Stato.»
Se infatti, il contributo è minimo per le categorie più basse, è di fatto inesistente per professionisti come lei. «Non sono rientrata in alcun tipo di agevolazione. Sembra che avere un titolo che ci permette una fascia di reddito medio-alta sia una colpa da scontare. Certo, avendo ventiquattro anni di attività legale alle spalle comunque avrei dato la priorità dei bonus a chi ne ha più esigenza. Tuttavia studi col fatturato annuo come il mio danno da lavorare a tre o quattro persone, investono e portano avanti tutto un sistema di produttività che non è stato in alcun modo preso in considerazione».
Di fatto, in questo periodo anche chi continua a lavorare registra quasi esclusivamente uscite senza entrate. «Sarebbe stato necessario di un rimborso del 50% dei costi di gestione, che sono detraibili solo se si produce. Inoltre, avremmo avuto tutti bisogno di un contributo per i canoni di locazione a uso professionale, nonché di un rinvio delle cartelle esattoriali al prossimo anno. Non chiediamo soldi per vivere, ma semplicemente di lasciarci prima riprendere. Gli oneri fiscali non sono un problema solo delle partite Iva, ma di tutti.»
In questo momento la dottoressa Falcone, come praticamente tutti i professionisti e gli imprenditori, deve basarsi esclusivamente sui suoi risparmi. Senza sapere quando riaprirà i suoi studi – di cui uno doveva essere inaugurato proprio a marzo – né quando potrà tornare ad applicare le sue tariffe di lavoro effettive. «Sto emettendo fatture più basse per una questione etica e morale, prima ancora che professionale. Come molti colleghi mi sento fortemente responsabilizzata da qualcosa che però sappiamo non ci ripagherà mai».
Un senso di inappagamento ancora più grave, però, è quello che vede per la categoria del marito, chirurgo. «I medici sono stati definiti “gli eroi del momento”, ma non è stato previsto alcun indennizzo per chi come loro combatte questa battaglia in prima fila, rischiando la vita ogni giorno. Avrebbero potuto fare qualcosa di più per incentivare la loro professione. E non mi riferisco solo a chi lavora nella sanità da anni, ma anche ai giovani precari. Non c’è stato alcun tipo di assunzione a tempo indeterminato, ruota tutta attorno all’emergenza. Come leggiamo dai messaggi che scorrono in televisione, viene offerto loro un alloggio, un’indennità e un pasto. Sono tutti professionisti che partono per città lontane dalla loro e rischiano di morire in cambio di un’indennità. Temo che dopo l’emergenza torneranno tutti a casa e verranno dimenticati come lo sono già moltissime altre categorie. Invece questa opportunità avrebbe potuto cambiargli la vita».
Photo by Robert Anasch on Unsplash
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