No. Non è l’ennesimo post contro gli influencer. Nemmeno contro quelli che sono bravissimi solamente a dire che sono influencer. Questa è una riflessione a tuo favore, caro imprenditore. Che tipo di imprenditore sei? Un giorno entri in azienda sbraitando: “ha ragione Lui, dobbiamo fare marketing esperienziale!” Ti muovi fra i corridoi come una biglia […]
Pastori digitali e greggi sociali
I “pastori digitali” ne dicono di tutti i colori. Ma tra loro ci sono anche bravi professionisti: l’approccio social va ripensato sulla base dell’utilità.
Cazzate: ecco la parola che porto con me dalla giornata di formazione targata Nobìlita. Non certo associata agli workshop, quanto piuttosto a una riflessione a margine che prima mi ha fatto sorridere, ma che poi mi ha lentamente condotto a un pensiero profondo su un ecosistema a me caro per lavoro: il digitale.
Colpa (o merito) della mail che Osvaldo Danzi ha mandato a noi speaker per darci un’idea di che cosa si aspettasse durante il momento di formazione – o meglio, di ciò che non voleva vedere. Una provocazione che con ironia mi ha messo dinanzi alle storture che ogni giorno vedo nel mio lavoro tra social e web, e a cui spesso (troppo spesso) rispondo passando oltre; non tanto per cecità, quanto per l’errata convinzione che questo storytelling (+ 1 sulla cartella del bingo) legato al digital sia solo rumore di fondo, incapace di provocare danni significativi.
Beh, più ci penso e più mi accorgo che questa convinzione sia quantomeno da rivedere.
La staffetta dell’algoritmo
Esagerazione? No. Chiunque frequenti corsi o eventi legati al digital sa benissimo che basterebbero due ore di speech per sentire snocciolare, una dopo l’altra, le caselle del bingo. Se avessi un euro per ogni volta che ho sentito nominare big data o Nokia, negli ultimi tre anni, sarei non dico ricco, ma certamente benestante. Non ho potuto non pensare alla causa di tutto ciò, e l’ho individuata in un fattore evidente e determinante: l’attenzione non a soddisfare l’utente, lettore, cliente, quanto invece, a suon di buzzword e trend, a rincorrere le esigenze imposte dagli algoritmi dei social. E questo non per ottenere consenso, condivisione o valore, ma un pugno di visualizzazioni e un po’ di seguito.
Un approccio vuoto che porta con sé, tolti i lustrini del caso, una totale mancanza di capacità di mettere a terra le attività, di tramutare il concetto in esecuzione, o in parole povere di produrre qualcosa che generi valore aggiunto per le realtà coinvolte. Perché social media, web, content marketing, inbound e tutto ciò che è possibile mettere in campo sono e saranno sempre il mezzo, e non – come pensano in troppi – il fine ultimo.
Di pastori digitali e greggi social(i)
Ma se immaginiamo che siano solo qualche parola o presentazione a effetto a creare questa voragine competenziale sbaglieremmo, e non di poco. A queste va aggiunta la pericolosa deriva all’omologazione sociale che i social da tempo portano con loro. Una spinta a seguire tendenze e a rincorrere modi e temi proposti da sedicenti guru; modelli assurti a gloria senza un ben chiaro motivo, ma solo perché capaci di toccare le corde giuste al momento giusto.
La differenziazione sta solo in una fantasiosa aggiunta di termini presi a caso, utili a creare caos e strabilianti onomatopee: dal neuro-psico-non-so-cos’altro marketing al vattelapesca marketing è un attimo.
Una mancanza di focus
Un’assenza che non è competenziale, sia chiaro. Esistono (e non sono affatto pochi) professionisti realmente capaci, in grado di prendere quel termine, digitale, e di farne una vera risorsa. Il problema è la mancanza di focus di imprenditori, utenti e simili, spesso incapaci di soffermarsi sul giusto punto, di fare “selezione all’ingresso” eliminando i fenomeni da feed che oggi invadono persino LinkedIn.
Una virtù, il sapersi focalizzare sulle cose importanti, che viene poco considerata, ma che dovrebbe trovare più fortuna tra scuola, università e formazione post laurea, a cui spesso si preferisce un surplus competenziale in una spinta al limite del collezionismo. È bene ricordarsi che il problema nella nostra epoca non può più essere la mancanza di dati e conoscenza, quanto il saperli dominare, eliminando con perizia il rumore che li accompagna e facendo forse il passo più difficile: riuscire a utilizzarli a dovere.
Il tempo delle risposte e dell’utilità
Per orientarsi in questa palude digitale serve un approccio quanto mai analogico, che fa e farà sempre rima con utilità, concetto che si lega alla volontà di produrre risposte concrete, ma che a ben vedere è capace di andare oltre. Un’utilità che oggi deve giocoforza passare dalla capacità di innovare condividendo valore, perché l’innovazione (+ 2 sulla cartella) è tale solo quando è capace di essere “significativa” e di generare frutti concreti per tutti gli attori coinvolti.
Un cambiamento di pensiero radicale che non può e non deve lasciarci indifferenti, ma spingerci a interpretare (o meglio reinterpretare) ciò che aveva portato con sé la nascita di alcuni dei mezzi più celebri dell’era digitale, social in primis. Tempi in cui si immaginava quanto questi nuovi strumenti avrebbero potuto fare, aiutando persone e soprattutto brand a modificare profondamente il loro modo di comunicare, relazionarsi, e perché no, vendere.
Una promessa tradita per molti, ma che può e deve essere ancora affrontata, rinunciando però alla smania dei 3.0 (o peggio 4.0) per puntare il focus sempre e solo sul valore.
Photo by www.ilgiornale.it/sites/default/files/foto/2012/12/05/2012-12-pecore-citt.jpg
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