Siamo napoletani. È un problema?

Se è vero che la storia di un popolo viene ricordata e contribuisce a crearne l’identità, e quindi la “fama”, probabilmente nell’immaginario collettivo Napoli dovrebbe essere considerata la Svizzera italiana. Se si pensa a tutti i primati raggiunti nel corso dei secoli (culturali, scientifici, sociali, ecc.) non si spiega come, dagli occhi meno attenti, Napoli […]

Se è vero che la storia di un popolo viene ricordata e contribuisce a crearne l’identità, e quindi la “fama”, probabilmente nell’immaginario collettivo Napoli dovrebbe essere considerata la Svizzera italiana. Se si pensa a tutti i primati raggiunti nel corso dei secoli (culturali, scientifici, sociali, ecc.) non si spiega come, dagli occhi meno attenti, Napoli e il suo popolo vengano visti in luce negativa. Non basta semplicemente elencare tutte le innovazioni create; sarebbe troppo semplicistico. Bisognerebbe affrontare un’altra questione. Quella meridionale.

 

Italiani e napoletani visti dagli stranieri

Vero è che questa sensazione di dover dimostrare sempre qualcosa più degli altri è più valida a Napoli che in altri luoghi. Nel 2012 mi trovavo per una mission manageriale a Boston e poi a New York. Affascinato dalla Grande Mela, mi ispirò, inizialmente, l’organizzazione e la modalità di gestire le relazioni di manager e professionisti newyorkesi, nonché la sicurezza con cui gestivano gli incontri. Proprio nell’ambito di una riunione, in cui spiegavamo i settori di attività da poter sviluppare negli Stati Uniti, diversi professionisti ci confidarono la mancanza di fiducia verso gli italiani, dipinti all’estero come “chiacchieroni”, e i napoletani, persone creative ma non organizzate.

Ora, premesso che le generalizzazioni e gli stereotipi dovrebbero essere ormai superati in generale, mi colpirono molto queste considerazioni, a mio avviso dette in maniera superficiale. Mi sembrava quasi che tutta la storia di un popolo venisse di punto in bianco gettata via per far spazio alle nuove modalità di organizzazione e strutturazione di stampo angloamericano. Mi sono chiesto: “Ma come, la prima ferrovia d’Italia, il primo codice marittimo al mondo, il primo Teatro al mondo, ora non contano più nulla?”. Per capirsi, è come se a un colloquio di lavoro eliminassero pezzi importantissimi del nostro curriculum davanti ai nostri occhi.

 

Qualità che non bastano

Da questa esperienza trassi alcune considerazioni.

In primo luogo che forse come napoletani (e forse anche come italiani) non siamo stati in grado di comunicare nel giusto modo la nostra esperienza e il nostro know how. Non abbiamo dato un segnale di organizzazione.

In secondo luogo che la creatività che ci contraddistingue non è venuta fuori a dovere. Ma come, un popolo creativo, che eccelle nel trovare la soluzione adatta a ogni problema (dei problem solver nati), non è riuscito a individuare l’elemento creativo nel darsi un’organizzazione propria?

In terzo luogo, è possibile che un popolo accogliente per eccellenza, abituato a vivere e convivere con popolazioni e dominatori diversi, che vede nell’altro una risorsa e non un problema, abbia dimenticato come la forza delle relazioni e degli scambi sia un potente amuleto contro le chiusure mentali e territoriali?

Ecco che mi viene in mente un altro aneddoto.

Paradossalmente sempre nel 2012, con Napoli appena uscita dalla crisi dei rifiuti, ci siamo trovati ad affrontare una grande sfida: portare per la prima volta in città un evento internazionale come l’America’s Cup. Contro il volere dei più, tutti gli operatori coinvolti e i cittadini sono riusciti nell’intento di convincere l’organizzazione a portare questo importante evento nel Golfo. Ebbene sì, convincere. Convincere che la città era pronta ed era in grado di gestire tutte le dinamiche coinvolte, che non c’era più spazzatura, che non c’era pericolo e che c’erano giovani talenti da impiegare nella sua organizzazione. Che c’erano le competenze necessarie per creare qualcosa di sensazionale. Da quel momento in poi, per usare una metafora velica, il vento è cambiato. La città ha capito che era pronta ad affrontare sfide mai neanche prese in considerazione, forse annichilita da una nebbia mentale, un non vedere in maniera chiara e consapevole le potenzialità inespresse. Forse convinti da qualcun altro che la voleva relegata in disparte. Invece il vento soffia ancora.

 

Napoli tiene fede al suo nome: una città nuova

Ecco, questo continuo bisogno di dimostrare di essere all’altezza delle situazioni, anche le più semplici, diventa un fardello di insicurezza che si trasmette per forza di cose a tutti i livelli. Forse è anche dovuto al fatto che fare sistema è un elemento che al Sud si vede di rado, ma non mi risulta che in altre città sia più semplice, a dire il vero.

È chiaro che ci sono delle difficoltà dovute ai livelli infrastrutturali, in cui si scontano dei gap rispetto ad altre città, o livelli di occupazione estremamente più bassi per cui le intelligenze spesso si spostano in zone dove la richiesta è maggiore. Ma è anche vero che siamo la città in cui ci sono un elevato numero di startup giovanili e in cui c’è un ottimo humus di attività e iniziative, oltre che una fucina di talenti che aspettano soltanto che gli venga data una possibilità.

C’è fermento. Sicuramente ora più che mai possiamo parlare di Neapolis, una città che sta vivendo una rinnovata spinta culturale e sociale; una città che sicuramente ha una grande linfa vitale rinvigorita dal comparto turistico, che la vede primeggiare per numero di presenze italiane e straniere.

E anche qui un’altra domanda è lecita. Come è possibile che in altre zone d’Italia, o ancora di più del mondo, dove non ci sono resti di culture antiche, dove non ci sono mare o spiagge, dove non c’è la bellezza di luoghi che tolgono il fiato, si riescono a costruire vere e proprie cattedrali nel deserto, mentre al contrario accade che dove ci sono tutte le premesse (di posizione geografica, di storia e cultura, ecc.) poi manca l’organizzazione? Quasi come se la legge del contrappasso ci indicasse che la creatività scompare per far posto a una superficialità dilagante. Come a dire: “Vabbè, ma noi abbiamo già tutto, non dobbiamo inventarci niente”.

Invece Napoli è una città che ha bisogno di credere che tutto sia ancora possibile; che ha bisogno oggi più che mai di essere scoperta e riscoperta altre mille volte.

E allora mi piace pensare che si possa creare una fusione tra tutti gli attori che possono apportare il loro aiuto. Come una fusione degli elementi: l’acqua che bagna il Golfo, la terra che custodisce le diverse culture, l’aria che a Spaccanapoli cercano di vedere in ampolle ai turisti stranieri, il fuoco che giace silenzioso nel caldo abbraccio del Vesuvio.

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