Startup, Buzzword o Realtà?

Andrea Dusi, imprenditore veronese, da oltre 18 mesi tiene un “diario di bordo”, cura un sito ad hoc dedicato alle “start up che non ce l’hanno fatta: fallimenti e lezioni da apprendere”, e l’elenco dei fallimenti, e delle lezioni da imparare, è davvero molto lungo. «Di recente l’ecosistema che ruota attorno al concetto di start-up ha […]

Andrea Dusi, imprenditore veronese, da oltre 18 mesi tiene un “diario di bordo”, cura un sito ad hoc dedicato alle “start up che non ce l’hanno fatta: fallimenti e lezioni da apprendere”, e l’elenco dei fallimenti, e delle lezioni da imparare, è davvero molto lungo.

«Di recente l’ecosistema che ruota attorno al concetto di start-up ha fatto registrare un incremento degli attori così significativo da indurre a pensare che in questo abbia inciso anche una componente “modaiola”», ha affermato Michele Padovani, amministratore di Istarter, incubatore di startup con sedi a Torino e a Londra, in una intervista al quotidiano “La Stampa” a fine 2013, proseguendo «ma credo che nel prossimo futuro prevarrà la vecchia legge della natura per la quale solo i soggetti più forti sopravviveranno».

A fare il punto della situazione arriva ora il rapporto del Ministero per lo Sviluppo Economico, aggiornato a dicembre 2014, sulle start up innovative, quelle che ai sensi del decreto legge 179/2012 sono iscritte alla sezione speciale del Registro delle Imprese.

Il numero di startup innovative a fine 2014 è di 3.179, in crescita del 20.9% rispetto alla fine di settembre [549 unità],  il 72.9% delle start up innovative fornisce servizi alle imprese, il 18% opera nei settori dell’industria in senso stretto e il 3.8% nel commercio.

Le startup con una compagine societaria a prevalenza femminile sono una minoranza assoluta: il 12.5% del totale. Le start up con una compagine societaria a prevalenza giovanile sono poco più di un quarto, il 26% del totale, mentre solamente il 2.3% del totale hanno una compagine societaria a prevalenza straniera.

Già questi dati fanno emergere con chiarezza come dietro allo sventolare sui media di quanto le start up siano un’opportunità di creazione di impiego, un toccasana per la piaga della disoccupazione giovanile nel nostro Paese, si celi una realtà molto diversa. Proprio dal punto di vista occupazionale, le 989 startup con dipendenti, pari al 31.1% del totale, impiegano complessivamente 2.607 persone, in media 2,6 dipendenti per ogni impresa, mentre almeno la metà delle startup con dipendenti impiega un solo dipendente. Insomma le start up sono micro-imprese se non addirittura delle “one man band”.

In valore assoluto la Lombardia è la regione che ospita il numero maggiore di start up innovative, sono 696 pari al 21.9% del totale, segue l’Emilia-Romagna con 360 [11.3%], il Lazio 303 [9,5%], Veneto 247 [7,8%] e Piemonte 229 [7,2%]. Il mezzogiorno, altra piaga storica italiana, anche in questo caso resta fuori dai giochi, in Puglia infatti vi sono solo il 4.2% delle start up innovative ed in Sicilia il 3.8%.

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Oltre la metà delle imprese, il 57,9% – che rappresenta quasi il 60% della produzione complessiva –  delle startup innovative nel 2013 è in perdita. Se questo è abbastanza normale che avvenga nei primi anni di attività, lascia sbalorditi verificare dai dati di dettaglio forniti che oltre un quarto delle start up non ha un sito web, una carenza pesante al giorno d’oggi per qualunque tipologia di impresa che si aggrava decisamente nel caso di attività che si definiscono innovative, e sono registrate come tali.

Non a caso la Com­mis­sione euro­pea ha rila­sciato recentemente un nuovo indice: DESI — Digi­tal Eco­nomy and Society Index — che clas­si­fica tutti i 28 Stati mem­bri dell’UE in base al loro ren­di­mento digitale, che traccia un quadro impietoso del nostro Paese. Come mostra il grafico di sintesi dell’area relativa all’integrazione della tecnologia digitale, inteso come digitalizzazione del business ed e-commerce, la situazione taliana è peggiore di quella di nazioni come Cipro o la Repubblica Ceca o il Portogallo, per citarne alcuni, ed anche per il futuro non sono attesi grandi miglioramenti in quest’ambito.

Digital Tech EU28

“Il divario digitale è legato anche alle barriere culturali dovute alle piccole dimensioni della quasi totalità delle imprese” ha dichiarato sulla questione Claudio Gagliardi, segretario generale di Unioncamere, rispetto al grave ritardo del nostro Paese che costa la bellezza, si fa per dire, di 3.6 miliardi di euro. Divario digitale che non pare venga colmato, a partire dal sito web come base minima di presenza in Rete neppure da molte “start up innovative”, che a questo punto si deve necessariamente virgolettare, ahimè, che mantengono anche sotto questo profilo le caratteristiche di molte delle aziende del “belpaese”.

Gli investimenti per innovazione tecnologica rappresentano in Italia il 4.8%del Pil contro il 6.8% della Ue a 28 paesi, media ampiamente superata da Germania e Francia e doppiata dal Regno Unito. Pare che sia decisamente prioritario intervenire su quest’area invece che sbandierare l’idea di start up come la nuova frontiera, il punto di arrivo massimo per l’imprenditoria e le sorti della nazione.

Start up, innovative o meno, è purtroppo una buzzword, un termine di cui riempirsi la bocca o peggio celare una realtà molto diversa.

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