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Tu vuò fa’ ‘o norvegese, ma lavori in Italy
Il modello 4+3 è già stato adottato in alcune aziende e Paesi. Potrebbe essere un rimedio contro l’invasione del lavoro nella vita privata, ma quali sono i lati negativi, e che categorie di lavoratori coinvolgerebbe?
Un libro molto bello di Tim Ferriss, chiamato 4 ore alla settimana – titolo originale The 4 Hour Workweek – racconta il grande inganno della valutazione del lavoro in ore. Si tratta di un concetto difficile da accettare per la maggioranza delle persone, dal momento che la nostra cultura, come tante altre culture occidentali, tende a premiare il sacrificio più che la produttività. Cercare di essere produttivi è invece, secondo l’autore, molto più importante che essere impegnati:
“Alternare periodi di attività e di riposo è necessario per sopravvivere, figuriamoci per prosperare.”
Il modello della settimana lavorativa da quattro giorni
Nelle scorse settimane si è parlato molto, e su diverse testate, del modello della settimana lavorativa da quattro giorni: l’idea viene dai Paesi scandinavi (Norvegia e Svezia, punti di riferimento piuttosto distanti da noi soprattutto per i salari, prima ancora che per il welfare: tanto per intenderci sono due Paesi in cui la paternità dura gli stessi mesi della maternità) e inizia a essere adottata anche in paesi mediterranei come la Spagna e la Francia.
Alcune aziende internazionali, come Unilever o Microsoft, hanno già iniziato a usare questo modello che riduce le ore settimanali da 40 a 32 – in alcuni casi si arriva a 35 – spalmate dal lunedì al giovedì. Secondo i sostenitori della tesi, ridurre la settimana lavorativa a quattro giorni avrebbe delle ripercussioni positive importanti sia per l’ambiente – per questo basterebbe incrementare lo smart working anche post pandemia – sia per i lavoratori. Sempre più spesso, infatti, il lavoro si protrae oltre l’orario nel quale si dovrebbe presenziare in ufficio: con la spinta del remote è sempre più difficile distinguere il momento del lavoro da quello dell’ozio.
È evidente che le persone sono, ormai, costantemente connesse: si svegliano controllando il telefono e le e-mail e rimangono reperibili da quando suona la sveglia a quando preparano la cena. Molti pasti si consumano davanti al monitor o con lo smartphone sempre a portata di mano, ed è anche per questo che la Commissione Europea ha lanciato, nei mesi scorsi, la proposta di introduzione del diritto alla disconnessione, ovvero la possibilità di staccare definitivamente dal lavoro al termine del proprio orario, stabilito da contratto. Lì dove presente, ovvio.
Ma è davvero questa la soluzione? È sufficiente ridurre il numero di ore lavorate per ridurre lo stress e avere più tempo per passare dal negotium all’otium?
Quattro giorni lavorativi su sette. Ma chi ne beneficerebbe?
In prima battuta, è bene sgomberare il campo da equivoci. Quella che secondo alcune testate è una rivoluzione, tanto da meritare titoli a sensazione è una questione che riguarda soprattutto le aziende multinazionali e una determinata categoria di lavoratori: quelli che una volta erano chiamati colletti bianchi, e che adesso indossano abiti casual dietro le webcam di un pc. Ma sempre di lavoratori e lavoratrici di concetto, o di pensiero, parliamo.
Questa proposta, che suscita scalpore a maggior ragione in un periodo in cui molti si sentono prigionieri di una vita in cui il concetto di “intrattenimento” ha subito un ridimensionamento drastico, è molto difficile da regolamentare e non considera un presupposto fondamentale: ossia che proprio per la categoria di lavoratori di pensiero è difficile ingabbiare la settimana lavorativa in un determinato numero di caselle di excel che rappresentano le ore.
Se oggi i lunedì, dopo due giorni di pausa, sono complicati perché c’è da riprendere il filo di cose lasciate a metà il venerdì pomeriggio (in alcune aziende i “buon weekend” aka “ne riparliamo la settimana prossima” iniziano già da mezzogiorno), dopo uno stacco di tre giorni rischiano di diventare drammatici. Molti lavorerebbero ancora più in apnea di quanto fanno oggi. Tanti si porterebbero comunque il lavoro a casa, nel vero senso della parola, o in senso figurato in epoca di smart working. E la settimana lavorativa finirebbe per diventare una metafora di un concetto già piuttosto anacronistico, quello del lavoro–pensione. La pensione come traguardo o redenzione finale ricorda molto questo assunto.
Rischi e vantaggi del 4 + 3
L’equilibrio andrebbe forse ricercato e costruito altrove: garantendo, ad esempio, il diritto – e questa è una proposta interessante – allo sport e all’ozio quotidiano. Inteso come lettura, come tempo per la famiglia, preparazione di un pasto da consumare a tavola e non sulla scrivania in fretta e furia, tempo per le relazioni.
L’idea dei due tempi completamente staccati tra loro, il 4 + 3, rischia di creare una frattura culturale definitiva tra fatica (come chiamano il lavoro in certe regioni d’Italia) e passione. Un po’ come quando si andava a scuola – sembra una vita fa, in tutti i sensi – e si aspettava giugno per staccare la spina per tre mesi. Magari è anche in virtù di quel tipo di educazione, perché la scuola incide nella nostra vita molto di più di ciò che pensiamo e difficilmente ricapiterà di nuovo un’occasione (drammatica vero, ma pur sempre occasione) per poterla ripensare, che siamo portati a pensare a compartimenti stagni. E quindi lavoro e tempo libero sono due mondi che devono vivere separati. Scuola-vacanza. Lavoro-pensione. Quattro giorni di lavoro e tre di svago. Tutto sembra tornare.
È vero che una regolamentazione serve nel momento in cui la norma diventa un’ora di straordinari non pagati di default tutti i giorni, che almeno 2-3 giorni ogni due settimane si va oltre le due ore, e che anche nel bel mezzo di una pandemia lo smart working è concesso in forma omeopatica un giorno a settimana a persona a ufficio: la partizione lavoro-tempo libero diventa allora il tentativo, criticabile e migliorabile, di porre un argine all’esondazione del lavoro nella vita di ognuno – a maggior ragione se libero professionista, imprenditore, non contrattualizzato – a causa della digitalizzazione.
Quindi lo schema 4 + 3 pone, a onor del vero, un limite a clienti, fornitori, capi che non conoscono rispetto degli orari – sono troppi quelli che non chiedono più se stai pranzando – e si approfittano della precarietà diffusa. Ma se dopo un anno come quello appena passato ci troviamo ancora a spaccare la vita dal lavoro e a non capire che l’equilibrio sarà sempre più soltanto dentro una loro coesione intelligente e rispettosa, stiamo davvero perdendo l’ennesima occasione di qualità del nostro tempo.
Non è solo una questione di allenamento, ma anche di non godere la bellezza del tenere allenati in libertà il cervello, il cuore e i pensieri (anche) quando si è in ozio.
Quattro giorni per stimolare il talento
Parlare di modelli organizzativi del lavoro su “base tempo” fa parte di un modo di leggere le culture organizzative molto vecchio. Non esiste, o quantomeno non è facilmente declinabile, un modello organizzativo applicabile a ogni contesto, perché ogni contesto lavorativo ha la sua cultura fatta di codici ben distintivi, e volerla per forza rinchiudere in cluster definiti potrebbe risultare un errore.
Dividere lavoro e vita privata come se fossero due cose che corrono parallele senza mai intercettarsi è utopistico, ora più che mai. Al netto del “dipende da che lavoro fai”, è un problema legato a come tradizionalmente il lavoro viene inteso e vissuto dalla nostra cultura in particolare, dove bisogna per forza chiudere un capitolo e iniziarne un altro. Il paragone con l’estero andrebbe sempre approfondito: si tende a dire che in certi Paesi i lavoratori “fanno cadere la penna alle 16:30”, senza sapere che in alcuni casi parliamo di culture in cui si esce da lavoro per poter fare le proprie cose – sport, figli, intrattenimento – per poi riprendere quanto lasciato in sospeso più tardi. Interrogarsi su che cosa è il lavoro per noi, che cosa vuol dire, se siamo felici di quel che facciamo, se è arrivato il momento di cambiare, è essenziale.
Probabilmente i sostenitori del 4+3 citeranno la legge di Parkinson:
“Il lavoro si espande fino a occupare tutto il tempo disponibile; più è il tempo e più il lavoro sembra importante e impegnativo.”
Una scadenza ravvicinata ci costringe a focalizzarci sugli obiettivi che dobbiamo raggiungere: il rischio di non riuscire a completare il lavoro, e le possibili conseguenze negative, ci motiva. E quindi meno giorni e meno ore potrebbero portarci a fare tutto meglio, a ottimizzare i tempi delle riunioni, dei meeting, delle call inutili e a diventare più produttivi. Ma anche in questo caso, sarebbe opportuno prendere in considerazione prima un programma di gestione del tempo, di ottimizzazione del tempo e delle risorse, di valorizzazione del talento. Se talento vuoi dire “saper fare la miglior cosa possibile nel minor tempo possibile”, allora la chiave è lì. Ma anche il talento ha bisogno di allenarsi, di nutrirsi, di contaminarsi. Il problema non è lavorare meno, ma semmai lavorare meglio. Ogni giorno.
Photo credits: shrm.org
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