Un distretto agroalimentare veramente sostenibile

L’enciclopedia Treccani definisce distretto industriale il sistema produttivo costituito da un insieme di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, caratterizzate da una tendenza all’integrazione orizzontale e verticale e alla specializzazione produttiva, in genere concentrate in un determinato territorio e legate da una comune esperienza storica, sociale, economica e culturale. Tra i tanti distretti esistenti […]

L’enciclopedia Treccani definisce distretto industriale il sistema produttivo costituito da un insieme di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni, caratterizzate da una tendenza all’integrazione orizzontale e verticale e alla specializzazione produttiva, in genere concentrate in un determinato territorio e legate da una comune esperienza storica, sociale, economica e culturale.

Tra i tanti distretti esistenti in Italia, quello che più mi ha colpito e che voglio raccontare oggi è un distretto ecologico, la Comunità del Cibo a Energie Rinnovabili, un’esperienza unica al mondo che, a parte il nome non proprio azzeccato (sono le fonti ad essere rinnovabili, non l’energia, infatti quest’ultima, in base al secondo principio della termodinamica, semmai si degrada), sta proprio dimostrando come sia possibile “fare rete” e creare relazioni industriali anche in settori (apparentemente) molto distanti tra loro, sia geograficamente che dal punto di vista dei processi produttivi. E, in questo caso, è la geotermia (anche se non esclusivamente) a legare quella “comune esperienza storica, sociale, economica e culturale” citata dalla Treccani. Se questa fonte energetica è sempre stata utilizzata per produrre elettricità (la prima centrale geotermoelettrica al mondo nasce proprio a Larderello, in provincia di Pisa, agli inizi del ‘900) e successivamente per riscaldare gli edifici (con il teleriscaldamento), oggi una dozzina di aziende toscane stanno dimostrando come sia possibile utilizzare il vapore e l’acqua calda proveniente dal sottosuolo anche per produrre alimenti di ottima qualità. Ecco allora che troviamo caseifici, birrifici, serre che hanno deciso di riqualificare i propri processi produttivi andando a sostituire il calore derivato dall’uso di fonti fossili con quello naturale proveniente dal centro della terra.

Questa caratteristica consente alle aziende di raggiungere tre importanti – e non secondari – obiettivi: il primo è quello di abbattere i costi di produzione (in particolare quelli energetici) e quindi rimanere competitivi su un mercato sempre più globalizzato, anche in termini di produzioni alimentari tipiche; il secondo è quello di garantire la sostenibilità ambientale del ciclo alimentare, andando ad abbattere, se non annullare, le emissioni di gas serra; il terzo è quello di salvaguardare (e a volte persino incrementare) i posti di lavoro, in aree tendenzialmente remote e/o che hanno subìto la chiusura di monoculture industriali, legate all’attività estrattiva, come le colline metallifere e il Monte Amiata.
Questo “distretto” nasce ufficialmente nel 2009, con la firma dello statuto dell’associazione “Agricoltori Custodi della Comunità del Cibo a Energie Rinnovabili della Toscana”, grazie ad un’intesa tra Slow Food e CoSviG, il Consorzio per lo Sviluppo delle Aree Geotermiche, in un territorio a cavallo delle province di Pisa, Siena e Grosseto (la cosiddetta “area geotermica tradizionale”). Fa parte di “Terra Madre” ed è la prima Comunità mondiale del cibo ad energia pulita e rinnovabile che opera nel settore agroalimentare e che insiste sui metodi di produzione oltre che sui prodotti, ed è composta da imprenditori che hanno come priorità, appunto, quella della sostenibilità ambientale.

È attualmente in espansione su tutto il territorio toscano e possono aderirvi produttori che utilizzino:
• Energia da fonti rinnovabili in maniera dominante nel proprio processo produttivo (cioè più del 50%)
• Materie prime provenienti esclusivamente dal territorio toscano
• Abbiano sede produttiva all’interno della Regione Toscana.

Tratti caratterizzanti delle aziende della Comunità del Cibo sono dunque la presenza di una filiera corta, il rilancio di forme di agricoltura sostenibile ed il recupero di produzioni tradizionali tipiche di alta qualità ed a rischio scomparsa.
La Comunità costituisce un’importante vetrina per le aziende aderenti. Ha infatti al proprio attivo numerose partecipazioni a Fiere nazionali ed internazionali come il Salone del Gusto – Terra Madre, Cheese, Energethica, FestAmbiente solo per citarne alcune. Particolarmente rilevante è la collaborazione poi con l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo (CN), ente nato da un’idea di Carlo Petrini, presidente di Slow Food Internazionale, i cui studenti ogni anno svolgono visite di istruzione e laboratori del gusto presso le aziende della comunità.

Questa esperienza sta dimostrando, seppur ancora con piccoli numeri (di aziende e di fatturato), come sia possibile inventarsi, anche in zone storicamente dedite all’industria pesante (energia e miniere in particolare) una nuova forma di sviluppo, senza abiurare il proprio passato ma, anzi, riempirlo di nuovi contenuti e prospettive. Questo è quello che il nostro Paese può fare, senza rincorrere schemi prefissati da altri (magari a New York dal FMI, a Bruxelles dalla Commissione Europea o a Berlino dalla Merkel) e sfruttare al massimo la sinergia tra il proprio “capitale umano”, che è fatto di piccoli artigiani, agricoltori, allevatori e le peculiarità del territorio, anche da quello che meno ti aspetti.

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