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Una polizza sul rischio manageriale
“Guarda, non voglio correre rischi” è la frase con la quale i manager delle imprese, nel segreto del confessionale di alcuni incontri di consulenza, bocciano spesso l’adozione di scelte coraggiose, preferendo a esse modalità prudenti di azione. In molti casi la parola rischio, nel lessico manageriale, è sinonimo di pericolo. In realtà il pericolo e […]
“Guarda, non voglio correre rischi” è la frase con la quale i manager delle imprese, nel segreto del confessionale di alcuni incontri di consulenza, bocciano spesso l’adozione di scelte coraggiose, preferendo a esse modalità prudenti di azione. In molti casi la parola rischio, nel lessico manageriale, è sinonimo di pericolo. In realtà il pericolo e il rischio sono due concetti da tenere sempre ben distinti. Il pericolo è generato da fattori esterni non governabili dall’azienda, il rischio è invece calcolabile ed è collegato a una nostra decisione organizzativa.
Il concetto di rischio venne elaborato in età moderna proprio nel mondo del commercio, dove si registrarono i primi contratti ad risicum et fortuna o pro securitate et risico. In volgare risciare significava “osare”, soprattutto in mare dove il mercante, spinto dall’obiettivo del profitto, rischiava appunto i suoi beni. Rischiando il carico su una sola nave era possibile fallire. Se invece si distribuiva il rischio su più navi, era assai improbabile che tutte affondassero contemporaneamente. Chi fa business quindi non sceglie mai fra il rischio e la sicurezza assoluta ma sempre fra rischi diversi. Altrimenti semplicemente non si sta occupando di business ma di tutela del patrimonio.
Gestione del rischio #1: che qualcuno dimostri l’innovazione
Negli anni della crisi alcuni team direzionali, mossi dalla paura generata da un ambiente incontrollabile, hanno adottato nella presa delle decisioni il criterio della sicurezza assoluta, un criterio che appunto nega l’imprenditorialità e lo spirito commerciale. Questo rifiuto del rischio, confuso con il concetto di pericolo, si è tradotto e tuttora si traduce in diversi comportamenti tipici.
Il più diffuso è il desiderio di lanciare un progetto di innovazione, a patto però che questo progetto innovativo “unico sul mercato” sia già stato realizzato da altre imprese e sia stato già oggetto di 15 ricerche di una famosa business school internazionale che possa certificare con il sangue dei suoi ricercatori l’assoluta bontà del protocollo di innovazione. Se poi, nella pratica internazionale, il progetto “innovativo” (cioè già implementato da altri negli ultimi 15 anni) è stato di successo, il manager vorrà la prova provata che anche nel contesto italiano è possibile agire la stessa modalità attraverso un benchmark nazionale. La prova sarà impossibile e quindi il progetto sarà chiuso in un cassetto. Per fare innovazione si tratta semplicemente di accettare che non possiamo conoscere il futuro a sufficienza, nemmeno quello che viene prodotto dalle nostre decisioni.
Gestione del rischio #2: abbiamo sempre fatto così
Una seconda modalità di gestione del rischio è l’adozione di pratiche che si sono sempre usate nella risoluzione dei problemi, “come abbiamo sempre fatto”, anche di fronte ad una evidente mutazione di scenario. Spesso il risultato sarà pessimo (“operazione perfettamente riuscita, paziente deceduto”) ma in ogni caso nessuno potrà avere nulla da ridire sulla razionalità delle scelte fatte. Poi certo, il contesto è mutato, lo scenario emergente ha prodotto situazioni assolutamente imprevedibili e quindi la responsabilità reale di chi ha scelto di non scegliere, adottando il modello dell’immobile “ramarro al sole”, sarà assai ridotta. Fare come si è sempre fatto ci permetterà di sostenere che non abbiamo voluto tradire l’identity e l’heritage aziendale, alibi pronto all’uso. In realtà quando scegliamo di non scegliere, il rischio non si annulla, semplicemente si trasferisce dal tavolo del management a quello dei dipendenti dell’azienda che rischiano il loro posto di lavoro a causa di scelte poco lungimiranti della direzione, o sul tavolo dei fornitori che rischiano la loro sopravvivenza, o su quello dei clienti che rischiano di non avere più a disposizione il prodotto o il servizio di cui adesso avevano davvero bisogno. Esistono cioè rischi di cui non vogliamo talvolta prendere coscienza: quelli di scelte irresponsabili sul piano sociale che alla fine possono far perdere ogni credibilità all’azienda e al management stesso.
Nella selezione del personale il rischio si riduce apparentemente a zero assumendo solo persone che abbiano un MBA certificato da cento associazioni di categoria piuttosto che una persona di provincia con una laurea “normale” e occhi che brillano di intelligenza. Un errore commesso da un professionista con il pedigree sarà comunque più facile da gestire di un’azione coraggiosa e rischiosa (cioè commercialmente interessante) di un neoassunto troppo coraggioso.
Gestione del rischio #3: muoversi con lentezza
Una ulteriore strategia di riduzione del rischio consiste nell’avviare un progetto in azienda agendo solo alcuni passi alla volta. Del progetto si comincia ad agire un primo evento di lancio, seguito sei mesi dopo dalle primissime azioni, lasciando che la gestione del caso passi magari al prossimo collega che, nel gioco della scopa aziendale, si troverà in mano il progetto quando finisce la musica.
La storia umana, se ci pensiamo, è un processo di progressiva trasformazione del pericolo in un rischio. Abbiamo scoperto il fuoco per difenderci dal pericolo degli animali feroci e da quello della fame, accettando il rischio di vedere le capanne del villaggio incenerite dallo stesso fuoco. Il rischio quindi sostituisce il pericolo, ma non lo annulla. Senza correre rischi, semplicemente ci mettiamo nella condizione di correre pericoli ancora più grossi. Il pericolo più grave che il management corre si chiama perdita della dignità professionale.
Questa perdita è il premio che a volte si decide di pagare per sottoscrivere una polizza contro qualsiasi rischio. Questo “contratto” sposta l’indeterminatezza del caso verso il futuro: non rischiamo di perdere il posto per aver lanciato un nuovo progetto di innovazione, ma magari in futuro rischiamo di non essere più impiegabili e attrattivi sul mercato del lavoro perché non abbiamo delle storie di business e degli obiettivi raggiunti da raccontare all’head hunter nel nostro percorso di carriera. Alla domanda: “quali obiettivi ha raggiunto nelle sue posizioni precedenti?” potremo rispondere al massimo “Come il ramarro al sole, immobile, mi sono tenuto la posizione per 5 anni, le pare poco?”.
La sicurezza, in azienda, non è l’opposto del rischio, ma è la rimozione psicologica del pericolo in nome della paura di avere paura. Alcune volte il timore si giustifica in virtù della nostra volontà di proteggere l’azienda così come è, per non sottoporla agli scossoni di un progetto di innovazione. Ma proteggere le imprese dal cambiamento, così come accade nell’accudimento dei figli, non sempre rende le stesse resilienti al mondo esterno: anzi esse, indebolite, risulteranno più esposte ai pericoli, e non ai rischi, dell’ambiente.
[Credits photo: Rob Bye, www.robertbye.com]
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